La misurazione della performance è ovviamente di primaria importanza nel prendere decisioni di investimento. Nonostante essa possa sembrare un concetto piuttosto banale, in realtà non lo è affatto: dietro una percentuale o dietro un rapporto esiste un significato che deve essere compreso al fine di evitare di assumere rischi alti in maniera inconsapevole solo perché ammaliati da numeri apparentemente elevati. Lo scopo di questo articolo è dunque quello di passare in rassegna i principali indicatori di performance.
L’importanza del rischio
Immaginate che qualcuno vi dicesse: “Il mercato ha fatto il 3%, ma io ho fatto il 4,5%, ho battuto il mercato!”. Per quanto possa apparire seducente un rendimento superiore a quello del mercato, la domanda che un investitore anche inesperto dovrebbe porre è: “quali rischi ti sei assunto?”. E’ evidente la necessità di considerare il rischio come variabile fondamentale a cui rapportare i rendimenti. Considerando infatti come modello di riferimento il CAPM, se il beta del portafoglio supera l’unità, il fatto che il rendimento riportato sia maggiore di quello ottenuto dal mercato non dovrebbe sorprenderci, visto che sarebbe una situazione “normale” in quanto ci si è assunti un grado di rischio maggiore rispetto al mercato. In realtà, più nello specifico, per comprendere se il ritorno è “normale”, ossia in linea con quando previsto dalla security market line, dovremmo essere a conoscenza non solo del beta, ma anche del risk-free di riferimento. Ad ogni modo, un rendimento superiore a quello del mercato non deve abbagliare un potenziale investitore, in quanto la variabile rischio gioca un ruolo di fondamentale importanza che il solo rendimento non cattura. Da ciò discende la necessità di utilizzare indicatori di perfomance aggiustati per il rischio (risk-adjusted) per poter valutare in maniera più consapevole e piena la perfomance di un gestore oltre a consentire comparabilità tra investimenti con livelli di rischio differenti. Tra i principali troviamo: l’indice di Traynor, l’indice di Sortino, lo Sharpe Ratio e l’information Ratio.
Prima di definire i suddetti indici però è opportuno analizzare i principali indicatori di rendimento e rischio che li compongono.
Indicatori di rendimento e rischio
Tra gli indicatori di rendimento più utilizzati troviamo l’excess return, che misura la differenza tra il rendimento di uno strumento e il risk-free rate, e l’alpha di Jensen, che misura il rendimento extra-normale ottenuto da un gestore rispetto quello previsto dalla Security Market Line. Più nello specifico, l’alpha di Jensen si misura:
α = ri – rin
dove
ri =rendimento del gestore
rin = rendimento “normale” della SML, pertanto rin può essere definito come
rin = rf + β(rmkt – rf)
Graficamente, l’alpha di Jensen è pari allo scostamento verticale tra la retta che rappresenta il portafoglio che si considera e la SML. Se l’alpha è positivo, vuol dire che il gestore ha sovra-performato (out-performed) l’indice di mercato, se invece è negativo vuol dire che ha sotto-performato (under-perfomed) l’indice di mercato, altrimenti si dice che ha conseguito un rendimento “normale”, ossia in linea con quanto voluto dal CAPM dato il livello di rischio sistematico assunto. Una gestione verrà definita attiva se si pone come obiettivo quello di ottenere un alpha positivo, al contrario sarà definita passiva se il suo fine è quello di replicare la perfomance del mercato costituendo un portafoglio con lo stesso beta e ottenendo così un alpha nullo.
Tra gli indicatori di rischio invece i più rilevanti sono la volatilità, ossia la deviazione standard dei rendimenti del portafoglio, il Beta, ossia la componente di rischio sistemico misurato come il rapporto tra la covarianza dei rendimenti del portafoglio con i rendimenti del mercato e la varianza dei rendimenti di mercato, il downside risk e la tracking error volatility. Il downside risk (DSR) è misurato come una semi-deviazione standard in cui al posto del rendimento medio prodotto dal portafoglio si utilizza il risk-free rate o il “minimo rendimento accettabile” (minimum acceptable rate of return MARR), che può coincidere o meno con il risk free stesso. In altre parole, il Downside Risk misura gli scostamenti verso il basso del rendimento del titolo considerato dal rendimento minimo accettabile, esprimendo quindi quella parte di volatilità non gradita dall’investitore, ossia in formule:
dove u è il rendimento medio.
Notare che al posto del risk-free nella formula del DSR può figurare il MARR per indicare un generico rendimento target.
La Tracking error volatility (TEV) invece misura la volatilità della differenza tra il rendimento di un fondo e il rendimento di un benchmark di riferimento che il fondo vuole battere in un’ottica di gestione attiva.
Gli indicatori risk-adjusted
Giunti a questo punto, è possibile definire i principali indicatori di performance aggiustati per il rischio e averne una buona comprensione.
Volendo partire dal più classico, possiamo definire l’indice di Sharpe (Sharpe Index) come il rapporto tra l’excess return e la volatilità del portafoglio, questo ratio misura il rendimento in eccesso ottenuto per unità di rischio complessivo ed ha una diretta derivazione dalla teoria della Capital Markel Line, pertanto si rivela essere impreciso quando la distribuzione dei rendimenti non si presenta normale (ossia gaussiana), tuttavia la sua semplicità applicativa ne fa un metodo di misurazione delle perfomance sintetico ed efficiente largamente utilizzato, soprattutto per valutare gli hedge e mutual fund.
L’indice di Treynor è invece il rapporto tra l’excess return e il beta di un portafoglio, indica dunque l’excess return per unità di rischio sistematico prodotto da un portafoglio. Utilizzando questo indicatore si lavora in un’ottica di Security Market Line venendo presa in considerazione solamente la componente sistematica del rischio, ovvero quella non diversificabile e la sola remunerata dal mercato.
L’indice di Sortino si misura come il rapporto tra l’excess return e il downside risk, esprime il ritorno in eccesso per unità di downside risk. La logica di questo indicatore risiede nel fatto che si concentra l’attenzione sulla parte di volatilità che genera perdite, ossia rendimenti inferiori al rendimento obiettivo (che ricordiamo può coincidere, anche se non necessariamente, con il risk-free). Ciò si spiega perchè nonostante nell’accezione comune il rischio è considerato come la volatilità complessiva, alcuni sostengono che l’upside-risk non venga percepito come un vero rischio, in quanto gli investitori considerano “rischiosa” la possibilità di ottenere rendimenti sotto il valore medio, e non già al di sopra, per i quali infatti sarebbero contenti. Pertanto, questo indicatore premia i fondi che, pur avendo una volatilità complessiva elevata, presentano comunque una scarsa volatilità negativa (ossia la volatilità al di sotto del target o del risk-free).
Infine, l’Information Ratio è dato dal rapporto fra rendimento attivo (alpha) prodotto dal gestore rispetto la tracking error volatility. Importante è dire che questo alpha non è necessariamente l’alpha di Jensen, o meglio, l’intuizione concettuale che vi è dietro è la stessa, ma mentre l’alpha di Jensen prende come benchmark di riferimento il portafoglio di mercato per misurare la bravura (skill) del gestore (ossia l’alpha), il numeratore dell’information ratio fa riferimento ad un qualsiasi benchmark, non necessariamente al mercato. Per esempio, se il gestore di un fondo si pone come obiettivo quello di battere un determinato portafoglio rischioso, in tal caso per misurare l’alpha bisognerà inserire nella SML il beta del benchmark e il risk free di riferimento, per poi comparare i rendimenti del fondo e con quelli del benchmark. È evidente che se il portafoglio rischioso in questione è il market portfolio, l’alpha di Jensen coinciderà con il nostro alpha così calcolato, se trattasi invece di un portafoglio con beta diverso da 1 l’uguaglianza verrà meno. L’information ratio dunque esprime il rendimento (attivo) in eccesso per unità di rischio, quest’ultimo misurato dalla TEV ossia in senso relativo sempre rispetto ai rendimenti del benchmark.