Chi è Jerome Powell?
Jerome Hayden Powell nasce il 4 febbraio a Washington D.C.. Laureatosi presso l’università di Princeton in “Politics”, indirizza rapidamente la propria carriera verso l’ambito economico, lavorando per la maggior parte della sua carriera presso David Polk&Wardwell, banca d’investimento americana, interrotta soltanto da una breve fase di un anno presso il dipartimento del Tesoro e altri due presso Bankers Trust. Nel dicembre 2011 è nominato membro del board della FED sotto la presidenza di Barack Obama (sebbene membro del Partito Repubblicano). Il 2 novembre 2017 è nominato CEO della Fed dall’attuale presidente degli USA, Donald Trump. Dopo l’approvazione da parte della commissione bancaria del Senato americano, Powell entra nel pieno esercizio delle funzioni il 5 febbraio 2018. I suddetti cenni biografici sono fondamentali al fine di comprendere il background dell’attuale Chairman della FED: ex banchiere d’investimento, repubblicano.
Deregulation e politiche monetarie
La ragione di fondo dietro la nomina di Powell è quella di portare al governo della Federal Reserve una personalità che sia in grado di tenere il timone delle politiche monetarie ben saldo, ritirando in maniera cauta gli stimoli monetari (Powell si era già dimostrato scettico riguardo la terza fase del Quantitative Easing nel 2012), ma allo stesso tempo flessibile riguardo la regolamentazione e la supervisione del sistema finanziario. Quest’ultimo aspetto, infatti, dovrebbe essere il vero punto di rottura rispetto alla precedente amministrazione della FED. Il nuovo CEO ha già manifestato la sua posizione favorevole ad ammorbidimenti nei confronti dei controlli verso il sistema finanziario. In particolare riguardo:
La “Volcker Rule”: insieme di norme introdotte da Paul Volcker, ex presidente della FED, che limita l’attività speculativa delle banche. Secondo tale normativa, il capitale proprio delle banche non può essere investito in derivati e partecipazioni in hedge funds per più del 3%. Finalità è quella di tutelare i risparmiatori da eventuali crack finanziari ed evitare il rischio di illiquidità nei mercati.
Una presa di distanza da micro-regulations da parte della FED e altri enti istituzionali.
Correzioni (allegerimenti) degli stress-tests delle banche americane.
Dal punto di vista monetario, come introdotto in precedenza, Powell è considerato una “colomba” conservatrice. Le aspettative createsi attorno al CEO della Fed sono infatti quella di una difesa del percorso di normalizzazione graduale nei rialzi dei tassi d’interesse. I tassi subiranno certamente un rialzo, ma non ci si attendono forti shock monetari. Parallelamente, è prevista una graduale riduzione del bilancio della Federal Reserve (gonfiato dal programma del QE), che attualmente ammonta a circa $4.400miliardi.
La prima riunione
0Quanto analizzato finora ha avuto parziale riscontro nel primo meeting ufficiale presieduto da Powell, tenutosi il 21 marzo. I tassi d’interesse americani (i FED funds rate) sono infatti passati da 1,25-1,50% a 1,50%-1,75%. L’obiettivo dalla FED è di attuare altri due rialzi nel corso del 2018, fino a raggiungere un tasso del 2,25%, dando continuità alla graduale stretta monetaria iniziata dall’ex presidente Yellen nel 2015.
(Fonte: statista.com)
D’altro canto, è stato rivisto l’obiettivo di lungo periodo della FED, stabilito per il 2020. Membri del board ipotizzano un incremento dei tassi che li porti ad essere oltre il 4% per tale data, supportati dalla costanza e dalla bontà dei dati riguardanti inflazione costante e bassa disoccupazione. Inoltre, la crescita del PIL USA nel prossimo triennio è prevista essere sempre al di sopra del 2% annuo.
In conclusione, la politica monetaria della FED si baserà su un semplice assunto: fintanto che la crescita economica del paese sarà stabile, si procederà alla normalizzazione graduale dei tassi, al fine di evitare rialzi improvvisi che danneggerebbero la crescita stessa. Allo stesso modo, Powell terrà saldo il timone: secondo quanto dichiarato ai microfoni della FED stessa, la guerra commerciale di Trump (dazi sull’import) non avrà effetti sui tassi, così come i tagli alle imposte. Resta da vedere quanto le previsioni saranno confermate o disattese, e se la politica fiscale espansiva di Trump porterà ad un’accelerazione del rialzo dei tassi. Un buon mix monetario-fiscale, come insegnano i manuali di macroeconomia, sono infatti la ricetta perfetta per migliorare la salute economica di una Nazione.