Gli Stati, nell’attuazione delle loro politiche economiche, hanno bisogno di ingenti capitali. Ciò avviene principalmente tramite l’emissione di titoli di debito nel mercato dei capitali (ad esempio i BOT e i BTP per l’Italia, i Bund per la Germania e i Treasury Bond per gli USA). Chi acquista un titolo di debito emesso dallo Stato diventa un vero e proprio creditore ed ha quindi diritto al rimborso del prestito e ad una remunerazione dell’investimento, variabile in base alla tipologia di titolo di cui egli è possessore. La somma del debito interno (ovvero verso i cittadini dello Stato emittente) e di quello esterno (ovvero verso soggetti non cittadini) dà come risultato il totale del debito pubblico.
Non bisogna confondere il debito pubblico con il deficit (o disavanzo di bilancio): il primo è, in termini economici, una grandezza stock, ovvero fissa, mentre il secondo è una grandezza flusso, ovvero dinamica, che esiste quando nel bilancio dello Stato le uscite superano le entrate. L’eventuale deficit quindi, alla fine dell’anno contabile di riferimento, verrà aggiunto al debito pubblico preesistente e ne incrementerà il valore. Alquanto particolare è la questione dell’indebitamento pubblico nell’eurozona: con il Patto di stabilità e crescita, stipulato nel 1997, gli Stati membri si impegnano a mantenere un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL (ovvero un rapporto deficit/PIL < 3%) e un debito pubblico al di sotto del 60% del PIL (rapporto debito/PIL < 60%) o comunque tendente al rientro.
La crisi dei debiti sovrani
Con la crisi finanziaria globale del 2008, molti Stati si sono visti costretti a indebitarsi fortemente per poter dare stimolo, tramite politiche espansive, ad un’economia sull’orlo del collasso. Questo ha fatto nascere la preoccupazione per il possibile default di Stati troppo indebitati. Il tutto è aggravato dal fatto che più è grande il debito e più esso costa: si ricordi che, in genere, vi è una relazione direttamente proporzionale tra rendimento e rischio (si veda il modello “media – varianza” o il modello “CAPM”, del quale abbiamo parlato in questo articolo).
In linea di principio esistono due modi per poter uscire da una situazione di eccessivo indebitamento: emettere più moneta per pagare i creditori statali (soluzione che però andrebbe considerata alla luce dei rischi inflazionistici che una scelta del genere comporterebbe) oppure ricorrere a misure di austerity, innalzando la pressione fiscale e ricorrendo eventualmente a politiche economiche restrittive.
La crisi iniziò in Europa proprio quando, a fronte di queste due alternative, i Paesi eccessivamente indebitati furono costretti ad adottare proprio l’austerity, non godendo di autonomia per quanto riguarda la politica monetaria, gestita in comune dalla BCE per tutti gli Stati membri dell’Unione Monetaria Europea. Di conseguenza questi Paesi (nello specifico Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia e Spagna, nonché Cipro), non solo furono obbligati ad innalzare la pressione fiscale, ma si trovarono anche nell’impossibilità di attuare manovre espansive per stimolare l’economia, anche nel tentativo di far aumentare il proprio PIL e rientrare nei limiti del 60% stabilito dal Patto di stabilità e crescita.
La teoria economica sul debito pubblico
Secondo Hindriks e Myles (autori del “Manual of Public Economics“), il vero problema risiede nella definizione di default per quanto riguarda uno Stato: una società che fallisce monetizza, con il processo di liquidazione, i propri assets per provare a soddisfare i propri creditori e in seguito si estingue. Qual è invece la conseguenza del fallimento di uno Stato a causa di insolvibilità, se non una profonda crisi economica?
C’è poi da considerare che un governo ha molti più incentivi a innescare una politica di indebitamento che una di tassazione al fine di attuare le politiche promesse all’elettorato; ciò è dovuto anche al fatto che, in linea di massima, il pagamento del debito pubblico si attribuisce implicitamente alle generazioni future. Questo potrebbe far nascere l’incentivo ad incrementare sempre di più il debito pubblico (“exploding debt situation” o “Ponzi game in public debt”), trasferendo il costo in un periodo futuro. Potrebbe sembrare strano, ma esistono Stati che negli ultimi cinquant’anni sembrano aver attuato proprio questo tipo di scelta, come ad esempio il Giappone (con un debito pubblico di oltre il 239% del PIL a fine 2017, il più alto al mondo).
Un paese con un alto PIL deve quasi per forza avere un alto indebitamento, da considerare in quel caso non patologico, bensì fisiologico. E ciò è dovuto alla necessità, da parte di questi Stati con un’alta produttività, di raccogliere continuamente ingenti risorse per poter finanziarie la produzione stessa e la crescita economica. In questo caso, la potenzialità del paese a produrre ricchezza dovrebbe essere la garanzia della solvibilità dello Stato stesso.