Secondo alcune stime, le riserve di petrolio sono destinate a esaurirsi nel corso di questo secolo. In ogni caso, nel mondo si è avviato un movimento che punta sempre più all’elettrico. Viene da chiedersi come saranno alimentate le auto nell’era post-benzina. La direzione presa dai colossi dell’automobilistica suggerisce la risposta: l’auto elettrica sembra destinata ad essere il sostituto più probabile.
Viene da immaginarsi un mondo più pulito, più ecosostenibile, essendo il petrolio nell’immaginario comune l’emblema di una rivoluzione industriale superata e incurante dell’ambiente. Viene da immaginarsi un mondo senza ostinate estrazioni.
In realtà, è già in atto una vera e propria corsa all’oro, con protagonista però un altro elemento, il litio. Il litio è indispensabile insieme al cobalto per la costruzione delle batterie elettriche per automobili, nonché per le batterie di cellulari e laptop. Gli speculatori non hanno tardato a farsi vivi, negli ultimi anni nonostante l’estrazione sia aumentata esponenzialmente, i prezzi di litio e cobalto sono triplicati, causa fondi di risparmio enormi che stanno comprando in blocco questi metalli e che sperano di rivendere a peso d’oro quando la produzione delle auto elettriche sarà a pieno regime. Il panorama dei produttori di litio si sta ampliando, la quota di mercato dei cosiddetti Big 3, cioè Rockwood Lithium, Sociedad Quimica y Minera de Chile e FMC, è passata negli ultimi dieci anni dall’85% al 53%. Se si parla di litio e cobalto il protagonista indiscusso resta la Cina, oltre a essere il quarto paese per quantità di litio dietro ad Argentina, Cile e Australia, è il più grande consumatore, con una domanda in continua crescita trainata dall’elettronica di consumo e dalle applicazioni per il trasporto elettrico.
Il 60% del cobalto estratto nel mondo viene dal Congo e il 90% del cobalto africano finisce in Cina. I presupposti non sono dei migliori: uno stato povero e corrotto come il Congo, sotto l’interesse di una superpotenza come quella cinese, certamente non famosa per l’attenzione ai diritti verso i lavoratori. In effetti, un preoccupante reportage del Washington Post ha puntato i riflettori sulle durissime condizioni imposte ai “minatori” africani. Si stima che oltre 100.000 persone scavino con strumenti improvvisati, privi di ogni misura di sicurezza ed esposti ai metalli.
Amnesty International parla di 40.000 bambini al lavoro per 2 dollari per 12 ore al giorno. Sfortunatamente, in tutto questo gli utilizzatori finali del cobalto fanno poco o nulla per vigilare sulla filiera. Litio e cobalto non rientrano nei cosiddetti “minerali da conflitto”, la cui estrazione è spesso nelle mani di milizie armate che usano il ricavato per acquistare armi e alimentare guerre. Quando si parla di “minerali da conflitto” ci si riferisce a oro, tantalio, stagno e tungsteno.
Qualcosa però si sta muovendo, Better Cobalt è un progetto pilota che vuole applicare la blockchain per tracciare le forniture. Apple ha promesso di spingere affinché il cobalto entri nella legge sui minerali da conflitto, anche se questo materiale non sovvenziona guerre. Il problema però resta serio, davanti a una domanda mondiale in forte crescita, è necessario che aumenti la pressione su chi opera sul campo, ma per questo serve non solo l’azione delle associazioni in difesa dei lavoratori, ma anche dei governi più potenti. Dal punto di vista del consumatore sarebbe complicato operare un boicottaggio, in quanto è impossibile capire da dove arriva il cobalto presente nella batteria del vostro dispositivo portatile e chi l’ha estratto. Al contrario si può alimentare il dibattito, sperando che il tema raggiunga la politica. È necessario maggiore equilibrio tra le necessità dell’industria e il rispetto di lavoratori e ambiente. Situazioni come quella che stanno vivendo i lavoratori del Congo, definibili di schiavitù, non si possono giustificare con la sete di progresso.
Marco D’Andrea