Una società che mette l’eguaglianza davanti alla libertà non avrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. – Milton Friedman
L’economia mondiale, dopo la grande depressione causata dalla crisi del 1929, abbracciò l’ideologia keynesiana, e tale sistema rimase pressoché immutato fino agli anni Settanta. Questi decenni furono caratterizzati da una forte presenza dello Stato, volta a promuovere politiche mirate a migliorare le condizioni sociali e ad assistere la popolazione con servizi ritenuti essenziali. La situazione cambiò radicalmente con la crisi petrolifera del 1973, che con il fenomeno della stagflazione mise in luce alcuni limiti intrinseci dell’economia keynesiana. Pertanto si osservò l’avvento di nuove teorie economiche, come quelle della Scuola austriaca e della Scuola di Chicago, basate sul libero mercato. I fautori politici di tale rivoluzione neoliberista furono Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Reagan negli Stati Uniti.
La teoria neoliberista
Il neoliberismo è un orientamento di politica economica favorevole ad un mercato privo di regolamentazione e di autorità pubblica, governato cioè delle sole forze di mercato (domanda ed offerta), senza alcun intervento statale.
Il centro di questa dottrina fu senza dubbio l’Università di Chicago con Milton Friedman, allievo di Friedrich Hayek (uno dei principali esponenti della Scuola austriaca). Friedman, nel suo celebre “Capitalismo e Libertà”, elencò i cardini di tale sistema, fornendo una ricetta fondata sui seguenti punti.
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Deregulation: Friedman intendeva con questo termine l’annullamento di tutte le regolamentazioni e le norme che limitano l’accumulazione del profitto individuale;
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Privatizzazione: partendo dal presupposto che i privati sono più efficienti dello Stato (tale concezione venne già mostrata nel 1929 nell’opera “I fallimenti dello stato interventista” di Ludwing Von Mises), si invitava a sostituire i servizi pubblici con quelli privati;
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Riduzione delle spese sociali: Friedman suggeriva di attuare programmi volti ad una riduzione delle spese sociali, tagliando i fondi per il sistema sanitario e pensionistico e accompagnando tali riforme con una riduzione delle tasse.
Tali teorie rimasero sulla carta almeno fin quando non furono eletti Margaret Thatcher e Ronald Reagan, rispettivamente nel 1979 e nel 1981. Le loro politiche rivoluzionarie furono basate essenzialmente sul libero mercato.
Margaret Thatcher
Quando salì al potere nel 1979, la Thatcher si trovò di fronte una situazione drammatica: l’Inghilterra era infatti considerata la malata d’Europa, con una produttività tra le più basse del Vecchio Continente, e il suo prestigio internazionale diminuiva sempre di più. L’economia era stagnante e il PIL pro capite tra i più bassi, con intere zone che, per le condizioni di vita, erano assimilabili a quelle dei Paesi del terzo mondo. Tuttavia in poco più di un decennio l’Inghilterra si trasformò radicalmente e diventò una tra le locomotive d’Europa. Il programma di governo si basava essenzialmente su «salari più alti e prezzi sotto controllo, inflazione in discesa, meno governo, meno tasse».
Il presupposto che l’individuo fosse un soggetto libero portò ad incentivare l’iniziativa individuale, scoraggiando contemporaneamente la dipendenza dallo Stato e dal suo assistenzialismo. Inoltre, per incoraggiate le forze del libero mercato, fu avviato un vasto programma di deregulation e di semplificazione burocratica. Le politiche economiche si basarono sul presupposto della “trickle down economy”, cioè sull’idea di abbassare la tassazione ai più ricchi con lo scopo di creare ricchezza per tutte le classi sociali. Al contempo furono attuate politiche fiscali improntate al rigore, con una riduzione della spesa pubblica e dell’intervento statale in materia di politica industriale. I risultati dei governi Thatcher furono sorprendenti: il debito pubblico passò dal 54% al 34.9%, l’inflazione dal 18% al 5.8% e il PIL crebbe mediamente del 2.7%, contro l’1% del precedente decennio.
Ronald Reagan
Reagan fu eletto nel 1980 con un largo consenso, conquistando oltre il 90% dei grandi elettori; tale risultato fu dovuto al fatto che la crescita della produzione negli Stati Uniti era nulla e l’inflazione raggiungeva il 13%. Fin dai primi mesi della sua presidenza, la politica economica fu impostata in modo da risanare il debito pubblico e diminuire la disoccupazione. I pilastri della sua visione economica (la cosiddetta Reaganomics) si basarono essenzialmente su quattro punti:
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Riduzione della crescita del debito pubblico;
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Riduzione delle tasse sul lavoro e sui redditi di capitale;
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Riduzione della regolamentazione dell’attività economica;
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Controllo dell’offerta monetaria e riduzione dell’inflazione.
Tali teorie furono pressoché speculari a quelle adottate dalla Thatcher nel Regno Unito e coerenti con i principi enunciati da Friedman. La decisione di ridurre l’imposizione fiscale si basò sulla Teoria di Laffer (curva di Laffer), secondo cui tale riduzione avrebbe avuto benefici sia sulla crescita economica che sugli stessi introiti fiscali: questo perché un’eccessiva imposizione avrebbe spinto i lavoratori a lavorare di meno, poiché i guadagni sarebbero stati erosi dallo Stato. Reagan attuò inoltre un forte processo di liberalizzazione con conseguenti scontri sindacali (nel 1981 licenziò 11.000 operatori di volo che chiedevano aumenti minacciando continui scioperi), oltre ad ingenti tagli alla spesa pubblica.
Tale periodo (1981-1989) fu caratterizzato così da una politica economica d’impronta individualista in cui veniva esaltata l’autosufficienza dell’individuo rispetto allo Stato assistenzialista. Gli effetti di tali politiche economiche portarono ad un aumento della produzione industriale e dell’occupazione, che raggiunse i minimi. Al contempo si registrò un aumento del divario tra la borghesia e la classe operaia, con i salari reali che rimasero bassi per molti anni a seguire.
Oggi Reagan e la Thatcher sono considerati in modo negativo da larga parte dell’opinione pubblica, che li vede come coloro che hanno portato alla deregulation selvaggia e che hanno abolito i diritti dei lavoratori. Il loro insegnamento tuttavia è molto chiaro: soltanto con scelte radicali è possibile risollevare un Paese. I risultati ottenuti rispettivamente negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono sotto gli occhi di tutti. L’occupazione non deve essere necessariamente garantita con l’assistenzialismo o con un incremento dei dipendenti pubblici (in controtendenza alle recenti ricerche che sembrano dimostrare come il lavoro pubblico sia diventato il più ambito), ma con iniziative volte ad incoraggiare l’attività privata e il libero mercato. Per tale motivo c’è bisogno di meno spesa pubblica, meno burocrazia e anche meno funzionari statali.