In un precedente approfondimento (che puoi leggere qui) era stato trattato il tema dell’efficacia delle politiche economiche da un punto di vista teorico, riprendendo in particolare le teorie di Keynes e di Ricardo. Esse presentano due versioni contrastanti degli effetti dell’intervento pubblico sull’economia. Pertanto, in questo ulteriore approfondimento passiamo ad un’analisi delle evidenze empiriche, cercando di osservare le conseguenze pratiche e reali delle politiche economiche poste in essere dai governi dei singoli Stati.
Le diverse ricerche empiriche degli ultimi anni, condotte sia dal Fondo Monetario Internazionale che dalla Banca Centrale Europea, forniscono stime eterogenee e variegate per quel che riguarda l’entità precisa degli effetti di determinate politiche fiscali sull’economia nazionale; eterogeneità dovuta, in parte, alle specificità di taluni Paesi europei, che inevitabilmente presentano aspetti strutturali esclusivi. Nonostante tale criticità, comunque, è possibile identificare alcuni fatti stilizzati, taluni più ovvi, altri più complessi: di seguito ci proponiamo di illustrarne i principali.
Le evidenze empiriche principali
La prima evidenza empirica concerne gli effetti di determinate politiche fiscali. Esse dipendono pesantemente dalle fasi del ciclo economico, pertanto la decisione di attuare una determinata manovra fiscale piuttosto che un’altra dovrebbe essere attuata tenendo conto della situazione economica congiunturale.
Il secondo stylized fact riguarda l’asimmetria nelle politiche fiscali. Effettuare una politica fiscale espansiva aumentando la spesa pubblica non produce gli stessi effetti di una politica fiscale espansiva perseguita tagliando le tasse. A livello di finanza pubblica possono avere lo stesso effetto sui conti del Tesoro in fase di implementazione e rendicontazione, ma il loro impatto sul reddito nazionale è spesso molto diverso. Lo stesso fenomeno è riscontrato, ovviamente, in presenza di politiche fiscali restrittive: aumentare le tasse non ha lo stesso effetto di ridurre la spesa pubblica.
Infine, la terza e ultima evidenza principale su cui ci vogliamo soffermare pone in luce l’intrinseca interrelazione tra le politiche fiscali e monetarie. Gli effetti delle prime varieranno a seconda delle politiche monetarie congiunturali attuate dalle Banche Centrali. Celeberrima è la frase di Draghi durante il programma di Quantitative Easing (trattato in questo articolo): «Ora i governi procedano con le riforme». In un regime caratterizzato da tassi d’interesse sul mercato interbancario praticamente nulli (in letteratura zero lower bound regime), le politiche fiscali conducono inevitabilmente a risultati differenti rispetto a situazioni in cui l’inflazione galoppa e la Banca Centrale reagisce alzando i tassi.
I trend
Il Fiscal Affairs Department del FMI ci fornisce una stima delle variazioni del PIL a fronte di shock positivi e negativi su spesa pubblica e tasse in fasi recessive ed espansive, identificando queste ultime in base al segno dell’output gap: uno negativo corrisponde ad una fase recessiva, mentre un output gap positivo ad una espansiva.
Le stime presenti nella tabella successiva vanno interpretate nel seguente modo: a seguito di un aumento/riduzione di 1 euro di spesa pubblica/tasse, di quanto è variato, sempre in euro, il PIL del Paese in questione a distanza di un anno e a distanza di due anni?
Ecco i risultati ottenuti nelle G6 economies (Italia esclusa) per il periodo 1970-2012.
Nella figura relativa a politiche fiscali espansive le voci “Positive Spending Shock” e “Negative Revenue Shock” indicano rispettivamente i casi di “aumento spesa pubblica” e “diminuzione delle tasse”. Le barre tratteggiate indicano che la stima ottenuta non è statisticamente significativa e non vanno pertanto prese in considerazione, a differenza di quelle a tinta unita. Inoltre, le stime sono state aggiustate tenendo conto del livello di indebitamento dei diversi Paesi.
Dare un giudizio univoco su tali stime sarebbe riduttivo ed errato, ma è comunque possibile riscontrare alcuni trend generali.
Innanzitutto, nella maggior parte delle G6 economies analizzate, gli impatti sul PIL dovuti a cambiamenti nel livello della tassazione sono minori rispetto a quelli ottenuti agendo su consumi e investimenti pubblici. In un’estrema semplificazione: investimenti e consumi pubblici sono più potenti delle tasse nel direzionare il PIL di un Paese. Si noti come, ad esempio, in fasi recessive gli effetti di positive spending shock abbiano una magnitudo maggiore di quelli associati a negative revenue shock.
La seconda conclusione che possiamo trarre da queste figure è che, tendenzialmente, in periodi recessivi (output gap negativo) le politiche fiscali restrittive, attuate mediante tagli a consumi e investimenti pubblici o con incremento della tassazione, hanno effetti negativi sul PIL più di quanto avverrebbe in fasi espansive.
Effetto degli investimenti
I risultati forniti e resi pubblici dal FMI, come gli stessi autori ammettono, vanno presi con cautela. Abbiamo già accennato all’enorme variabilità tra i diversi Paesi: ad esempio, la Francia sembra raccontare una storia completamente diversa, come evidente dalle figure. Peraltro non abbiamo alcuna indicazione associata a tali stime che ci consenta di dire quali investimenti pubblici siano più o meno efficienti e profittevoli. Riallacciandoci a quanto detto nel precedente articolo sui moltiplicatori keynesiani, non siamo in grado in alcun modo di dare, nemmeno con tali evidenze empiriche, alcuna raccomandazione precisa e specifica di politica fiscale a livello settoriale.
Nel tentativo di ovviare a tale generalità, sempre il Fondo Monetario Internazionale analizza gli effetti degli investimenti pubblici sul PIL sotto determinate condizioni di efficienza. Con investimento pubblico efficiente si intende, generalmente, un investimento destinato ad apportare beneficio alla società, minimizzando gli sprechi in termini di risorse pubbliche. Affinché l’investimento pubblico sia considerato efficiente, tale beneficio non deve necessariamente arrivare a breve, ma può anche essere spalmato su più anni e riguardare generazioni future.
Come intuitivamente possiamo immaginare, i Paesi in grado di condurre investimenti pubblici ad elevati standard di efficienza riescono a gravare meno sulle finanze pubbliche, tenendo maggiormente sotto controllo il debito, e raggiungono per di più livelli di output industriale maggiori. Quanto appena affermato è testimoniato dalle simulazioni mostrate nella tabella di seguito.
Citiamo direttamente lo studio del Fondo Monetario Internazionale, al fine di sintetizzare il messaggio lanciato dalla figura sopra: «Gli effetti degli investimenti pubblici sull’output e sul debito tendono a essere più forti, in positivo, quando c’è stagnazione economica, l’efficienza pubblica è alta e gli investimenti sono finanziati tramite debito».
Le simulazioni sono state condotte su un campione comprendente tutte le economie del mondo considerate “avanzate” e sono realizzate “on average”, cioè prendendole in considerazione tutte insieme.
La situazione italiana
Non abbiamo quindi informazioni specifiche sulla situazione italiana, che è stata inoltre completamente esclusa dal citato studio sugli effetti di manovre espansive o recessive di diversa tipologia sul PIL delle G6 economies. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il nostro Paese presenta delle forti peculiarità, purtroppo in negativo. Una di queste riguarda senza dubbio la qualità delle nostre infrastrutture, riportata nell’immagine seguente tratta dal rapporto dell’International Civil Effectiveness Index, che ci vede fanalino di coda tra le economie del G7.
La situazione permane in tutti gli anni considerati (dal 2006 al 2012) e non lascia presagire niente di buono neanche in termini di efficienza degli investimenti in generale. Pertanto nel nostro Paese anche un incremento degli investimenti potrebbe risultare molto più inefficace di quanto mostrato negli studi del FMI ed avere solo effetti sul valore complessivo della spesa pubblica, andando ad appesantire ulteriormente l’enorme massa di debito.
In sostanza, il futuro economico e politico italiano continua ad apparire tremendamente incerto, in un equilibrio instabile tra manovre espansive di stampo keynesiano dalla scarsa efficienza e un rigore di conti pubblici quasi certamente depressivo, come hanno dimostrato alcune politiche di questi ultimi anni.
Articolo realizzato con il contributo di Michele Zema,
dottorando in Economics alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
Riferimenti bibliografici
Afonso A., Baxa J, Slavik M, 2011, Fiscal Developments and financial stress: a threshold VAR analysis. ECB working paper series.
Alesina Af, Ardagna S., Large changes in fiscal policy: taxes versus spending. 2010. NBER
Auerbach AJ., Gorodnichenko Y. 2012a, Fiscal Multipliers in recession and expansion. NBER
Baum A., Marcos P.R., Weber A., Fiscal multipliers and the state of the economy. 2012. IMF working paper
Blanchard O.J., Leigh D., Growth forecast errors and fiscal multipliers. 2013. NBER
The International Civil Service Effectiveness (InCiSE) Index. 2017. The Blavatnik school of government at the Oxford University
World Economic Outlook chapter 3: Is it time for an infrastructure push? The macroeconomic effects of public investment. 2014