Molto spesso un piccolo prefisso può modificare completamente il significato di una parola. È anche il caso del termine migrazione, che può essere declinato in im-migrazione ed e-migrazione. L’uomo ha una visione del rapporto tra sé e il mondo fortemente autocentrata: pertanto, per ogni Paese, si parla di immigrazione (dal prefisso latino in) per indicare il flusso di persone che arriva dall’estero, mentre si parla di emigrazione (dal prefisso latino ex) per indicare il flusso dei propri connazionali che partono per l’estero.
Dei due fenomeni esposti, quello quotidianamente al centro dell’attenzione mediatica italiana è solo l’immigrazione, in particolare relativa a quelle persone che giungono in Italia dall’Africa, attraversando il Mediterraneo sui barconi. Eppure nel corso degli ultimi anni si è consolidato un dato molto importante e preoccupante che è passato quasi completamente in sordina: a partire dal 2014, il saldo migratorio italiano è diventato negativo, una cosa che non accadeva da decenni. Ciò significa che andando a calcolare la differenza tra il totale delle persone che entrano in Italia e il totale delle persone che se ne vanno si ottiene un risultato negativo, poiché queste ultime sono più delle prime.
L’emigrazione ieri ed oggi
Spesso, parlando dell’immigrazione, si fa un parallelismo con l’emigrazione italiana di quasi un secolo fa, come a suggerire che un fenomeno analogo a quello che il nostro Paese sta subendo in entrata, in uscita si possa paragonare solamente a qualcosa di remoto, non più attuale. Eppure gli ultimi dati sono molto eloquenti: dall’Italia partono ogni anno circa 300.000 persone, più o meno le stesse cifre registrate nel secondo Dopoguerra o a fine ‘800, ovvero i periodi caratterizzati dal picco emigratorio più alto. Secondo un report annuale OCSE sui migranti, l’Italia è l’ottavo paese al mondo per quanto riguarda l’origine di flussi migratori, subito dopo il Messico, davanti anche all’Afghanistan ed al Vietnam. In media, degli italiani che ogni anno abbandonano la propria terra natia sono circa due terzi quelli che non vi fanno, o prevedono di non farvi, ritorno.
I dati
È necessario però fare un chiarimento sulle cifre. A inizio 2018 erano circa 5,1 milioni gli italiani iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero (Aire), 2 milioni in più rispetto ai 3,1 del 2006, un incremento del 64,7% in 12 anni (+2,7% sul 2017). Per individuare il flusso annuale, invece, intuitivamente si potrebbe pensare di calcolare la differenza degli iscritti a questa anagrafe da un anno all’altro. Ad esempio, nel 2017 si sono iscritti all’Aire per espatrio 125.193 cittadini italiani. Più indietro nel tempo, troviamo 114.512 nuovi iscritti nel 2016, 84.560 nel 2015, 73.415 nel 2014 e solo 37.129 nel 2009.
In verità, però, i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi. Facendo un approfondimento sui dati delle due mete preferite dagli emigrati italiani, cioè la Germania e il Regno Unito, si possono ottenere dei risultati interessanti. Considerando gli archivi statistici in materia assicurativa e previdenziale di questi due Paesi si rileva che gli italiani nuovi iscritti negli ultimi anni allo Statistiches Bundesamt tedesco e al National Insurance Number britannico sono tre volte superiori rispetto alle cancellazioni anagrafiche registrate in Italia.
Questo accade perché tale iscrizione rappresenta un passaggio obbligato per chi voglia trasferirsi in loco e provvedere alla registrazione di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via, a differenza della cancellazione dalle anagrafi comunali italiane, che è spesso considerata un atto superfluo, tanto che nei registri elettorali a volte compaiono anche persone che vivono all’estero ormai da decenni. Proprio per questa ragione i centri studi in materia indicano che, per ottenere una stima reale, i dati ufficiali vanno aumentati di 2,5 volte, ed ecco che i 125.193 trasferimenti di anagrafe diventano circa 313.000 italiani espatriati nel 2017.
Considerazioni sul fenomeno dell’emigrazione
È importante fare anche alcune riflessioni qualitative sui numeri indicati. Innanzitutto, l’emigrazione italiana ha continuato a crescere ed anzi ha accelerato negli ultimi 2-3 anni, caratterizzati da una seppur fragile ripresa economica. Questo dato è in controtendenza rispetto a quelli di altri Paesi europei, dove il flusso si è ridotto, e testimonia il fatto che le condizioni lavorative non sono affatto migliorate. Infatti, secondo un sondaggio, ben il 61% degli under-32 italiani si dice pronto ad emigrare all’estero e addirittura il 90% ritiene che lasciare l’Italia sia una necessità per trovare un’occupazione adeguata.
Inoltre, per quanto riguarda il livello d’istruzione, il 30,4% di chi lascia l’Italia ha un titolo universitario, il 34,8% è diplomato e il 30% è in possesso di licenza media. Risulta pertanto riduttivo parlare solo di fuga di cervelli, allo stesso tempo, però, sono proprio le persone in possesso di titoli di studio superiori a costituire il costo economico e sociale maggiore. Infatti ogni italiano che emigra rappresenta un investimento perso per lo Stato, quantificabile in 90.000 euro per un diplomato, 158.000 o 170.000 per un laureato (a seconda che si tratti di laurea triennale o magistrale) e 228.000 per un dottore di ricerca.
Dal punto di vista geografico, le percentuali più alte di emigrati attualmente provengono dal Nord Italia, ma questo spesso riflette un fenomeno di rimbalzo, poiché in molti casi si tratta di persone di origini straniere o meridionali i cui genitori avevano compiuto una prima migrazione verso i territori del triangolo industriale e che a loro volta emigrano verso l’estero. Infine, molto interessante è anche la distinzione per età.
Nonostante gli under-40 siano ancora la fetta maggioritaria di coloro che se ne vanno dall’Italia, nell’ultimo periodo sono cresciuti molto (+20,7%) gli over-50 disoccupati che vanno all’estero alla ricerca di un lavoro, nonché i pensionati che partono per raggiungere Paesi con un minor costo della vita o per andare ad aiutare i figli che erano già partiti precedentemente (+35,3% nella fascia d’età 65-74 anni, +49,8% in quella 75-84 anni e +78,6% dagli 85 anni in su).