Affinché l’educazione finanziaria non si riduca ad un tecnicismo sterile, le nozioni tecniche devono essere illustrate con un costante occhio di riguardo per l’attualità; tuttavia è utile inquadrare quelle stesse nozioni in una cornice concettuale il più ampia possibile, all’interno della quale la storia del pensiero economico gioca un ruolo centrale: rintracciare la genesi teorica del modello liberista aiuta infatti a non averne una visione dogmatica. Volendo dunque adempiere a questo compito, punto di partenza è La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, testo in cui la formalizzazione di concetti tecnici inediti si intreccia alla prima argomentazione sistematica in favore del liberismo economico.
Prima mossa del pensatore scozzese è individuare, in rottura con la tradizione mercantilista, la ricchezza di una nazione non più nel suo reddito complessivo ma nel tenore di vita dei suoi abitanti (grossomodo ciò che verrà chiamato reddito pro capite), inaugurando la mentalità per cui oggi possiamo definire la Svizzera più ricca della Russia. Per Smith infatti il reddito nazionale Y equivale alla quantità di prodotto ottenuta mediamente da ogni lavoratore (la produttività del lavoro π) moltiplicata per il numero L dei lavoratori occupati sul suolo del Paese, di modo che Y = πL. Il reddito pro capite, la vera ricchezza della nazione, si ottiene dunque dividendo il reddito nazionale per la popolazione N.
Questo conduce Smith a ridurre la reale ricchezza della nazione a due fattori, la percentuale di cittadini che lavora e la produttività π del loro lavoro, parametri che per l’economista chiamano inevitabilmente in causa il liberismo economico.
Il liberismo economico
Il numero di lavoratori occupati
La quota di cittadini impiegata in un lavoro produttivo, primo fattore menzionato, è infatti per Smith dipendente a sua volta dalla struttura produttiva liberal-capitalista, nella legittimazione della quale incontriamo un’altra nozione fondamentale di questo modello economico: l’accumulazione del sovrappiù.
Smith, innovando ancora la concezione ereditata, non considera più una collettività divisa secondo i tradizionali ceti sociali di agricoltori, artigiani e nobili, ma individua delle nuove categorie in funzione del reddito corrispondente: i salari per i lavoratori, le rendite per i proprietari terrieri ed i profitti per i capitalisti.
Il sovrappiù del sistema produttivo, la parte del prodotto che rimane una volta restaurate le scorte dei mezzi di produzione ed i mezzi di sussistenza dei lavoratori (i salari), corrisponde alle rendite dei proprietari terrieri ed ai profitti dei capitalisti; tuttavia, mentre i primi utilizzano i loro redditi per consumi tendenzialmente improduttivi, i secondi reinvestono i loro profitti in nuovi mezzi di produzione e soprattutto in lavoratori addizionali. L’accumulazione del sovrappiù, ossia il suo impiego produttivo messo in atto dai capitalisti in una società liberale, rappresenta quindi il primo requisito affinché cresca il numero di lavoratori produttivi e quindi, in seconda istanza, la ricchezza della nazione.
La produttività del lavoro
A prescindere dalla legittimazione del modello produttivo capitalista, la via attraverso cui Smith configura il suo liberismo riguarda ancor più il secondo fattore che determina la ricchezza di una nazione: la produttività π del lavoro. Questa dipende a sua volta da un altro concetto cardine dell’economia classica, consistente nello stadio raggiunto dalla divisione del lavoro, che influenza π in vari modi: innanzitutto un lavoratore che possa impiegare il suo tempo su una mansione specifica e circoscritta vede migliorare le sue abilità in un lasso di tempo minore, in secondo luogo risparmia il tempo che avrebbe altrimenti impiegato nel passare da un compito all’altro, ed infine ciò comporta collateralmente anche un maggiore progresso tecnico. In parole povere si potrebbe dire che la produttività di un’impresa che occupi dieci operai è molto maggiore della somma delle produttività separate di dieci imprese con un singolo operaio.
Ѐ in quest’ottica che Smith invoca quindi la fine di qualsiasi barriera doganale, ponendo l’ampiezza del mercato di sbocco come la condizione essenziale per la sopravvivenza di questa produttività maggiorata e quindi, in seconda istanza, per la crescita della ricchezza nazionale. L’adozione di politiche commerciali liberiste è infatti ciò che più di tutto può mettere in moto una spirale virtuosa: l’allargamento dei mercati aumenta la domanda, favorisce quindi l’accumulazione del sovrappiù, e questa, permettendo di impiegare una quota maggiore di lavoratori a produttività crescente, accresce la ricchezza della nazione.
L’equilibrio del mercato e la concorrenza
Alla base della propensione di Smith per il liberismo commerciale troviamo la sua fede nel funzionamento equilibrato dell’economia di mercato: anche se separate e guidate dall’interesse, le imprese operanti in ciascun settore assicurano un flusso di offerta che incontra grossomodo le quantità domandate dagli acquirenti. Il mercato assicura questo equilibrio tramite il meccanismo della concorrenza, il quale funziona sia internamente al mercato di ogni merce, sia tra i mercati dei vari prodotti intesi come settori che offrano un certo profitto capitalistico.
Il primo caso prevede banalmente che il venditore con prezzi troppo alti rimanga con la merce invenduta, mentre l’acquirente che ne offra uno troppo basso non effettui l’acquisto; ma è il secondo livello che, anticipando il concetto dell’uniformità del tasso del profitto, spiega realmente perché un’economia di mercato, implementata socialmente su larga scala, non richieda comunque interventi esterni. Infatti se anche aumentasse la domanda di un dato prodotto, quel settore di mercato non offrirebbe comunque un profitto maggiore: nuovi capitali subito affluirebbero verso di esso, aumentando la produzione della merce ma diminuendone così il prezzo di mercato.
Risulta quindi impossibile, in teoria, sia che i prezzi concreti delle merci non gravitino intorno al loro giusto prezzo, sia che l’offerta produttiva non tenda naturalmente ad incontrarsi con la domanda; ulteriori ragioni per cui una politica liberista, con le sue tutele per la concorrenza, risulta per Smith auspicabile.
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