L’Italia, dal punto di vista formale, si impegnò ad entrare nell’eurozona nel 1992 con la firma dei Trattati di Maastricht. All’alba del 1996, tuttavia, non era certo che l’Italia entrasse a far parte del club dei fondatori. Infatti il paese non era ancora riuscito a rispettare i parametri fissati quattro anni prima. Così il Governo Prodi decise di tentare il tutto per tutto, istituendo la famosa “Tassa Europa” per riequilibrare i conti pubblici, abbassare l’inflazione e lo spread. Nel 1997 l’Italia riuscì quindi a rispettare 4 dei 5 parametri europei: inflazione, tassi di cambio e di interesse vicini a quelli delle migliori economie, rapporto Deficit e Pil inferiore al 3%. L’unico non rispettato fu quello di raggiungere un rapporto fra debito pubblico e Pil inferiore al 60%.
Le ragioni per cui l’Italia volle entrare subito a tutti i costi
Le ragioni che spinsero il governo Prodi a forzare l’economia nazionale per poter entrare subito nell’eurozona furono molteplici. Innanzitutto si credeva che la creazione dell’euro sarebbe stato un passo necessario per arrivare alla costruzione degli “Stati Uniti d’Europa”, dando per scontato che l’impianto normativo sarebbe stato ampliato e perfezionato durante il tempo. L’Italia voleva essere al centro di questo progetto a lungo termine.
Vi era inoltre la convinzione che un paese macroeconomicamente fragile come l’Italia avrebbe ottenuto vantaggi proprio dal punto di vista macroeconomico. Il nuovo sistema avrebbe portato maggiore stabilità, impedendo ai governi di aumentare il deficit economico per scopi elettorali e diminuendo inflazione e tassi d’interesse sul debito sovrano. Si sosteneva che i più bassi tassi d’interesse sui titoli di Stato avrebbero stimolato da una parte gli investimenti privati e dall’altra le riforme strutturali. Si pensava, inoltre, che eliminando il rischio di cambio si fosse eliminato del tutto il pericolo degli attacchi speculativi.
I difetti strutturali dell’euro
Secondo la teoria macroeconomica standard, un’area valutaria è definibile come “ottimale” quando vi è ampia convergenza tra gli apparati produttivi ed i sistemi politici delle diverse aree che la compongono. La situazione di massima criticità per un sistema monetario è la presenza di shock asimmetrici, ovvero di fasi cicliche nelle quali mentre il prodotto reale e l’occupazione di un paese crescono, quelle di un altro recedono.
Strumenti di politica economica centralizzata insufficienti
A seguito di shock asimmetrici, per ristabilire la convergenza e garantire stabilità a tutto il sistema, occorre disporre di strumenti di politica economica centralizzata. Il bilancio dell’Unione Europea (per aprofondire clicca qui) è però irrilevante rispetto a quello dei singoli bilanci nazionali, mentre un bilancio proprio dell’eurozona non esiste affatto. Gli unici strumenti a disposizione dell’eurozona per ripristinare l’equilibrio dopo uno shock asimmetrico sono la libera circolazione dei lavoratori, che ha però conseguenze socio-culturali molto profonde e rischiose, e la flessibilità di prezzi e salari, che rischia però di corrodere ulteriormente la domanda interna dei paesi in difficoltà.
La Grande Recessione e la crisi dei debiti sovrani
Quello che si è verificato durante la Grande Recessione e la crisi dei debiti sovrani fu uno shock asimmetrico tra la Germania e gli altri paesi europei meno produttivi, come l’Italia. Lo squilibrio è stato “sanato” solo attraverso una tendenziale riduzione dei salari dei lavoratori dell’Europa periferica.
Con le regole di non sforamento del rapporto deficit/pil al 3% e del rapporto debito/pil al 60% per le politiche di bilancio nazionali, a seguito della Grande Recessione (2008/9), i paesi europei, in assenza di un bilancio comune, non hanno avuto gli strumenti adeguati per stimolare consumi e investimenti. Anche negli Stati Uniti d’America i singoli Stati devono rispettare simili stringenti regole fiscali ma il bilancio comune può essere utilizzato per colmare i gap causati dalle crisi economiche, evitando così lo shock asimmetrico.
A causa della mancanza di strumenti di politica economica adeguati per rispondere alla Recessione che ha colpito l’eurozona tra il 2008 e il 2009 l’Europa, a differenza delle altre aree macroeconomiche di paesi sviluppati, ha subito una seconda profonda recessione tra il 2012 ed il 2013 con lo scoppio della crisi dei debiti sovrani.
La situazione in Italia
Il Sistema-Italia ha dovuto subire un fortissimo shock sul mercato del lavoro. Indipendentemente dall’appartenenza all’euro o meno, tutte le principali economie mondiali con la globalizzazione economica e finanziaria hanno subito problemi di stagnazione dei salari ed indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori. Il fatto che esistano multinazionali libere di de-localizzare quasi ovunque e quasi senza limiti ha generato una concorrenza molto forte tra i diversi paesi nell’offrire costi del lavoro più bassi possibile. L’Italia fin dalla Prima Repubblica aveva un costo del lavoro molto alto, soprattutto a causa delle tasse molto alte per i datori. Inoltre, la produttività del lavoro italiano è cresciuta molto meno di quella dei competitor europei e mondiali.
Alla globalizzazione si è poi, dopo la Crisi del 2008, aggiunto lo shock asimmetrico interno all’area euro. I salari reali ed il potere d’acquisto sono scesi in modo significativo ed il numero di italiani in fuga all’estero è salito ai massimi storici. A pagare sono stati soprattutto i giovani, tra i meno laureati ma più disoccupati d’Europa.
Il dibattito sulla BCE
Un argomento di grande interesse sia nella letteratura macroeconomica che nel dibattito politico è quello del ruolo della Banca Centrale Europea. Innanzitutto, la principale problematica che si pone in un’area valutaria formata da paesi diversi è identificare una politica monetaria calibrata per le esigenze di tutti i gli Stati-membri. Quanto più un sistema monetario è omogeneo tanto più è facile identificare il tipo di politica monetaria da adottare. Quando all’interno di una stessa area coesistono più economie tra loro molto differenti c’è rischio di attuare delle politiche che possono rivelarsi dannose per un paese e virtuose per un altro. Vista la bassa convergenza tra le economie europee è fisiologico che la politica monetaria centralizzata della BCE possa risultare più efficace per alcuni paesi piuttosto che per altri.
Come è strutturata la BCE
La Banca Centrale Europea è stata costruita prendendo come modello la Bundesbank, esempio perfetto per descrivere una banca centrale indipendente dai governi e conservatrice.
L’indipendenza delle BCE rispetto agli organi politici sovranazionali e nazionali comporta che quest’ultima non eserciti la funzione di “prestatore di ultima istanza” né nei confronti dei singoli stati né di uno stato centrale. Negli USA, invece, la FED è prestatore di ultima istanza non dei singoli stati ma quantomeno di quello centrale. Anche su questo tema, in Europa, il problema è squisitamente geo-politico. Gli Stati del Nord Europa, più solidi nei conti pubblici, non avrebbero alcun vantaggio nel condividere il rischio delle economie instabili dei paesi periferici. E’ naturale che siano riluttanti ad assegnare il ruolo di prestatore di ultima istanza per i singoli stati alla BCE.
Perché non si riesce a modificare un sistema che non funziona
La soluzione canonica al problema sarebbe la creazione di un bilancio federale unico garantito dalla BCE simile al modello americano, d’altronde l’euro fu pensato proprio per un sistema del genere. Tuttavia, il sentimento anti-collaborazionista che molti paesi europei stanno mostrando negli ultimi anni non sembra andare in questa direzione. Infatti la creazione di un bilancio unico, oltre che un’ulteriore riduzione del potere dei governi nazionali, implicherebbe un maggior contributo proprio da parte degli Stati più ricchi. La mancanza di un bilancio unico rende i debiti sovrani degli Stati dell’eurozona più vulnerabili e sensibili anche a piccole fluttuazioni nel mercato azionario. Infatti se uno degli Stati dell’eurozona non trova acquirenti per i suoi titoli di stato non esiste nessuno strumento per aiutarlo.
L’austerità, la risposta delle mani legate
A seguito della Prima Recessione (2008/9) si è quindi innestato un circolo vizioso. Il calo del PIL ha aumentato il rapporto tra Debito e Pil, innalzato i tassi di interesse sui titoli di stato causando un vertiginoso aumento del debito pubblico. Tutto questo ha costretto gli Stati all’austerità. L’austerità, nonostante abbia messo al riparo i conti pubblici, non ha restituito la crescita. Così i tassi di interesse sui debiti sono rimasti alti e si è incappati in una nuova crisi, quella dei debiti sovrani (2012/3). Questa ha colpito il cuore del mediterraneo e, quindi, dell’Europa stessa. Il lungo periodo di recessione come di consueto, ha colpito soprattutto gli strati più bassi della popolazione, facendo impennare la disoccupazione giovanile ed il numero di poveri.
Le critiche alla BCE
Le banche centrali conservatrici come la BCE hanno come fine principale il raggiungimento di target nominali. In altre parole devono porsi obbiettivi in termini di inflazione e non in termini di occupazione o crescita del PIL. Questo modello di Banca Centrale è stato aspramente criticato da diversi premi Nobel in economia quali Stiglitz (Euro, 2017) e Krugman.
Secondo la maggioranza degli esperti una maggiore inflazione, anche se contenuta al 4/5% annuo, avrebbe di certo aiutato i paesi colpiti dalla crisi dei debiti sovrani ad alleggerire il peso dei loro enormi debiti pubblici. L’unica arma che hanno dalla loro parte gli stati membri dell’eurozona per poter ridurre il rapporto tra debito e pil è quello di ridurre la spesa pubblica. Questo mette però a repentaglio altri posti di lavoro.
Tassi di cambio reali vs nominali
La Germania è stata il paese che ha saputo avvantaggiarsi meglio dell’adozione dell’euro. Dagli anni ’90 in poi la Germania è diventata, grazie anche ad una produttività sempre crescente, il più grande esportatore al mondo. Il paese ha accumulato solo nel 2017 più di 300 miliardi di dollari di surplus commerciale.
In un sistema a tasso di cambio fisso come l’euro però se un paese membro esporta molto più di quello che importa mentre gli altri hanno surplus più bassi (Italia) o addirittura dei deficit nella bilancia dei pagamenti (Spagna e Francia), l’area esportatrice si avvantaggia utilizzando un tasso di cambio nominale più favorevole rispetto a quello “reale”, scaricando il peso sugli altri. Così come pubblicato dall’External Sector Report dell’FMI nel 2016 e nel 2017, a causa dell’eccessivo surplus tedesco, l’Italia utilizza un tasso di cambio sopravvalutato di quasi il 10%. Si perde così molta competitività soprattutto nei confronti della Germania stessa, che usa invece un tasso di cambio sottovalutato del 15%.
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