In vista del prossimo summit Nato, nelle scorse settimane la Germania ha affermato di essere pronta ad aumentare gli investimenti destinati alla difesa e alla sicurezza. Berlino stanzierebbe per il 2020 fondi tali da portare la spesa militare dall’1,36% del PIL (47 miliardi di euro) all’1,42% (50.3 miliardi), manifestando il chiaro intento di avvicinarsi al 2% richiesto dagli Stati Uniti. Trump da anni muove sempre più diffuse e pungenti pressioni sugli Alleati, e contemporaneamente critica la stessa Nato definendola obsoleta e superflua per gli interessi americani. Tuttavia al tempo stesso alla Nato viene ancora garantito, come afferma il Segretario di stato Mike Pompeo, un impegno statunitense «a prova di bomba» dato che «il mondo ha bisogno della forza e leadership della Nato ora più di sempre». È dunque interessante notare come negli ultimi anni si sia alimentata una doppia narrazione dell’Alleanza atlantica: la prima la vede come eternamente in crisi, la seconda rimarca la sua persistente rilevanza.
Il doppio volto della Nato
Tra i pilastri dell’ordine egemonico liberale del secondo dopoguerra, la Nato è quello che prima di ogni altro ha subito una profonda crisi nell’immediato dopo-Guerra fredda, la quale ha mostrato il suo carattere paradossale.
Da un lato continua a mostrare segni di vitalità molto più convincenti di altre istituzioni internazionali, dall’altro è stato il primo pilastro ad essere oggetto di discussione e critica. E per queste ragioni è stato anche il primo a rispondere, attrezzarsi e adattarsi al nuovo assetto geopolitico ed economico mondiale ben prima del 2008.
L’attivismo interno dei suoi membri negli ultimi 25 anni ha reso il suo organismo flessibile e reattivo, uno strumento multilaterale di gestione della sicurezza euro-atlantica cruciale e irrinunciabile di fronte alle sfide e minacce provenienti dalla Russia, dalla Cina e dal Medio Oriente.
Nella Nato «convivono fattori strutturali di crisi ed elementi di persistente rilevanza», citando il Rapporto ISPI (l’Istituto per gli studi di politica internazionale) del 2019: tanto più le ipotesi di superamento o scioglimento dell’Alleanza si fanno insistenti, tanto più gli alleati confidano ed investono nella Nato.
Lo abbiamo visto con la questione dei Balcani, con l’intervento in Afghanistan, in Iraq, in Libia e lo vedremo, forse, ora con la Siria. La sua ragion d’essere non è affatto venuta meno. Ma sono fortissime le ambiguità con cui vive, rintracciabili in due annose questioni: in primo luogo, le incongruenti narrazioni dell’Amministrazione di Trump, fra accuse di obsolescenza e riconoscimento dell’importanza della Nato; in secondo luogo, il problema del cosiddetto burden sharing.
La retorica di Trump
Donald Trump si è presentato fin dall’estate del 2016 come pubblicamente avverso alla Nato, e nel corso dei successivi anni ha spinto il confronto con i partner europei su un terreno del tutto nuovo.
Per la prima volta un presidente statunitense ha sottolineato la condizionalità dell’impegno americano nella Nato.
In modo del tutto inedito ha posto dei se di fronte alla possibilità di un intervento attivo in difesa e tutela dei Paesi membri europei, ovvero la valutazione positiva della loro ottemperanza ai vari obblighi posti dall’Alleanza («if those nations have fulfilled their obligations to us»). La Nato di questa prima narrazione trumpiana appare come un organismo che, al pari del WTO, danneggia gli interessi statunitensi e carica gli USA di pesi non riconosciuti dai suoi alleati, di costi di cui si deve liberare affinché l’America sia “great again”.
L’intento dell’attuale Amministrazione statunitense, in linea con l’indirizzo della politica commerciale internazionale, sembra essere quello di abbandonare sempre più una politica estera orientata al multilateralismo, il quale comporta agli USA ingenti costi che non riesce più a controbilanciare con altrettanti benefici, rendendo la sua pretesa leadership meno efficiente e più gravosa del passato.
Tuttavia, se nei tavoli Nato afferma con durezza la necessità di un maggiore impegno finanziario e una superiore responsabilizzazione dei membri europei, a livello più superficiale, ovvero attraverso mass media, Trump stesso racconta un’altra storia.
La contro-narrativa, che vive sottotraccia, ma che si rivela essere maggiormente duratura, reale e influente, riconferma la rilevanza della Nato ed elogia il sistema di alleanza che nel tempo si è mantenuto evolvendosi. A confermare questa visione contro-retorica sono i National Security Strategy, il documento strategico più importante redatto da Washington, degli ultimi anni: qui i capitoli dedicati all’Europa sottolineano la centralità del Vecchio Continente per la sicurezza di quello nordamericano. Dunque, esiste una persistente rilevanza strategica, basata su comunanza di interessi e condivisione di minacce comuni, che si oppone alla visione di un’Alleanza futile e infeconda. Il pensiero strategico del governo federale degli Stati Uniti indica pertanto un quadro ribaltato rispetto all’accusa di obsolescenza della Nato.
Il problema dei finanziamenti comuni
Nell’estate del 2018, in apertura di un vertice, Trump ha apostrofato gli alleati europei definendoli come “delinquenti”, poiché delegano il peso finanziario della loro difesa agli Stati Uniti, e, rivolgendosi ad Angela Merkel, ha dichiarato la Germania “prigioniera della Russia”, per via della loro reciproca dipendenza energetica.
In linea generale, la presidenza americana accusa l’Europa alleata di non investire a sufficienza per la difesa collettiva (non raggiungendo l’obiettivo del 2% di spesa sul PIL), di non salvaguardare gli interessi geo-strategici ed economici comuni intavolando dialoghi bilaterali con la Federazione russa e la Cina, e conclude minacciando il ritiro degli USA dall’Alleanza.
Ma, al di là della retorica, come abbiamo accennato il vero nodo si stringe intorno al problema del burden sharing. Trump ha ripetuto più volte come ci sia uno sbilanciamento nella distribuzione dei costi della difesa a sfavore degli Stati Uniti: nel 2018 il loro stanziamento è stato di oltre 640 miliardi di dollari, contro i quasi 300 miliardi complessivi dei restanti membri.
Tuttavia, anche se da sempre è vero che oltre il 70% del peso finanziario è sorretto dagli USA, la lettura dei dati sulle spese e contribuzioni, e la loro analisi nel tempo, fornisce una realtà diversa. Solo tre Paesi membri hanno raggiunto l’obiettivo del 2%, ma è altrettanto vero che tutti hanno inserito nei documenti di programmazione economica nazionale nuovi incrementi nei fondi destinati alla difesa e sicurezza comune, e quattro di queste nazioni dovrebbero raggiungere così l’obiettivo entro i prossimi anni. Inoltre, mentre la spesa statunitense è in tendenziale diminuzione dal 2012 e le previsioni future non fanno che accentuare questo trend, quella alleata è in sostenuta crescita.
Dunque, anche il bilancio finanziario della Nato conferma quanto precedentemente detto: in primo luogo, gli alleati degli Stati Uniti riconoscono all’unanimità la rilevanza strategica dell’Alleanza incrementando la loro partecipazione in termini di risorse e impegno politico; in secondo luogo, gli USA sono sempre più portati a ridimensionare il proprio ruolo di “poliziotto” dell’ordine mondiale all’interno di sistemi di azione multilaterale, prediligendo quelli bilaterali; infine, vi è uno scarto significativo fra le accuse mosse da Trump e la realtà dei fatti in materia di investimenti in difesa e contributi all’Istituzione.
Nelle previsioni, il bilancio finale della Nato per questo 2019 supererà i 980 miliardi di dollari, un saldo composto sempre più da finanziamenti provenienti dagli alleati europei e dal Canada.
La Nato è attraversata dalle stesse contraddizioni e squilibri che hanno colpito negli ultimi decenni il mondo economico e politico dell’Occidente, ma nonostante i segnali di crisi e l’atteggiamento statunitense particolarmente aggressivo e critico, l’Alleanza sembra mostrare un rafforzamento e segnali di decisa persistenza.