In Italia il 20% più ricco della popolazione detiene il 70% di tutto il patrimonio nazionale, che ammonta nel complesso, considerando la ricchezza dei privati, a 9.297 miliardi di euro. I tre miliardari più ricchi della Penisola, nell’ordine Giovanni Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Stefano Pessina, hanno da soli più soldi del 10% più povero degli italiani, ovvero circa 6 milioni di persone. Lo rivela il rapporto Oxfam Time to care di inizio 2020. In Italia l’80% della popolazione meno ricca detiene il 20,2% della ricchezza privata nazionale.
L’affermazione del meccanismo di ricchezza “dinastica”
Il problema principale in Italia è che diventa sempre più difficile cambiare la propria posizione sociale. La quasi totalità dei cittadini del 20% più ricco è nato molto ricco, mentre gli altri molto difficilmente accrescono la loro ricchezza o riescono a farlo in maniera molto limitata. Questo va ad inibire la reale positività del libero mercato, con molti settori di fatto monopolistici ed i capitali per realizzare le idee sempre nelle mani degli stessi. In questo modo viene ad essere molto indebolito, infatti, il meccanismo della concorrenza, con tanti attori nel mercato che non hanno il bisogno di innovarsi per sopravvivere.
Un capitale sempre più chiuso e cieco
In Italia, a differenza del secondo ‘900, dal XXI secolo la ricchezza sta diventando sempre più legata alla famiglia. Infatti, il panorama dei più poveri e dei più ricchi, nel corso di 20 anni, è diventato sempre più statico. Gli italiani con idee innovative non trovano spazio nel loro Paese e per realizzarle si trovano costretti quasi sempre ad emigrare all’estero. Infatti, oltre alla disuguaglianza, nella Penisola è forte un meccanismo di chiusura da parte della fascia più ricca, secondo cui è molto semplice ottenere finanziamenti con i giusti contatti, mentre è quasi impossibile farlo senza averli. Questo spesso indipendentemente dalla validità della propria idea di business.
La disuguaglianza crescente
Come mostra un’analisi di Credit Suisse, dal 2000 al 2020 la disuguaglianza in Italia è andata accentuandosi. A fronte di un complessivo impoverimento del Paese, infatti, il 10% più ricco ha aumentato il suo patrimonio complessivo del 7,6%, contro una riduzione del 36,6% per il 50% più povero.
Costo del lavoro e delocalizzazione
La concorrenza di Paesi come la Cina ha compromesso lo stato di salute del libero mercato occidentale. Infatti, in tali Paesi spesso i diritti umani hanno poco peso, per cui le condizioni dei dipendenti sono spesso al limite della sopravvivenza. In questo modo il costo del lavoro in tali realtà è davvero molto basso, rendendo quasi impossibile competere per le aziende occidentali. Questo ha portato ad un intenso fenomeno di delocalizzazione, con tante aziende multinazionali che hanno spostato sempre di più la produzione in Paesi dove era possibile pagare i dipendenti con stipendi da fame. Inoltre chi non delocalizza, anche per mancanza di mezzi, ha grosse difficoltà ad essere competitivo.
La delocalizzazione e la competitività nei costi del lavoro ha portato ad un aumento della disoccupazione nei Paesi con economie più sviluppate e ad un abbassamento degli stipendi medi. I governi, a fronte di questo problema, avrebbero potuto porre forti dazi contro gli Stati che permettono condizioni di lavoro troppo al di sotto di quelle permesse dall’importatore. Tuttavia, la politica adottata sembra piuttosto essere quella di cercare di abbassare il più possibile il costo del lavoro anche in Occidente. Questo sta portando l’effetto inevitabile di un sempre maggiore impoverimento delle fasce meno ricche della popolazione.