Simone Ciaruffoli è il fondatore e CEO di Burgez, il fast food più irriverente d’Italia, nonché fondatore e direttore creativo di Upper Beast Side, lo studio che cura la creatività e il marketing di Burgez.
Nella sua carriera ha fatto lo scrittore di libri e testi universitari, lo sceneggiatore per Camera Caffè, il direttore creativo, l’insegnante di filmologia, il ristoratore e ovviamente l’imprenditore. Studia psicologia da oltre vent’anni ed è consulente per il marketing di importanti aziende italiane.
Simone, quanto conta la comunicazione per distinguersi dai competitors?
Conoscete il fast food americano Shake Shack? A New York è molto famoso e lo stesso hamburger lo fanno in centinaia di locali, però di Shake Shack ce n’è uno solo. Anche nel panorama milanese abbiamo molti hamburger simili a quelli di Burgez, però fortunatamente per noi e sfortunatamente per loro, non hanno lo stesso successo. Perché succede questo?
È questione di comunicazione. La chiave è costruire un mondo attorno al prodotto.
Le persone amano più Burger King di McDonalds ma spesso decidono di entrare da McDonalds perché preferiscono il loro mondo. In questo contesto Upper Beast Side è fondamentale per Burgez, perché in un mercato sovraffollato come quello dei fast food, la comunicazione la deve fare da padrona. Non so se Burgez avrebbe avuto lo stesso successo senza Upper Beast Side, so però che da quando avevamo solo pochi punti vendita, ci chiamavano da tutta Italia senza mai aver assaggiato un panino per chiederci di entrare in affiliazione perché pensavano fossimo una catena americana importante. Tutto questo solo per la comunicazione ambiziosa che abbiamo costruito attorno al nostro prodotto.
Ristorazione e delivery: è un cambiamento strutturale? Quali sono i trend della ristorazione nel 2021?
Burgez è stato concepito fin dal primo punto vendita soprattutto per il take away e delivery. Immaginavamo che il delivery la avrebbe fatta da padrone in futuro, quindi due terzi dei nostri spazi sono adibiti a cucina e stoccaggio, la sala è solo un terzo, e in alcuni punti vendita come i Burgez Go non c’è nemmeno.
Questa era la nostra linea già nel 2015, la pandemia non ha fatto altro che accelerare il processo di ridimensionamento dei locali e degli spazi interni che era già nell’aria da tempo. Molti pensano che quello che sta succedendo sia per merito o colpa della pandemia, ma in realtà è un processo iniziato anni fa. La ristorazione nel nostro paese costa, i costi delle strutture sono importanti, i costi del personale altrettanto, e poi ci sono le tasse. In alcuni casi non è possibile portare avanti uno stile di ristorazione anni Settanta con 300 coperti. Quel tipo di ristorazione è finita, quindi noi eravamo indirizzati verso quello che secondo me è il futuro: ristoranti sempre più piccoli e veloci. I ristoranti classici rimarranno sempre perché l’esperienza gastronomica è fondamentale, però i trend fast e delivery stanno crescendo e credo che proseguiranno.
L’Italia sta avendo una espansione molto importante nel delivery, più che in altri paesi perché noi partivamo in ritardo. Gli italiani sanno cucinare, e bene o male una pizzeria sotto casa la abbiamo tutti, ma le nuove generazioni sanno sempre meno cucinare. I cibi pronti sono sempre più all’ordine del giorno, quindi il delivery crescerà di pari passo alle generazioni più giovani.
Qual è la politica di Burgez sui finanziamenti? È difficile gestire un successo così veloce senza cedere a fondi di private equity?
Noi abbiamo avuto richieste fin dall’inizio, pensate che quando avevamo solo due o tre punti vendita abbiamo avuto un incontro con Rocket Internet SE, i quali ci chiesero di entrare in società per aprire 100 Burgez Go in tutta Europa. Anche loro avevano interesse ad investire in realtà che seguissero il trend del delivery, ma noi non abbiamo accettato. Non abbiamo fatto accordi né con loro né con altri che si sono affacciati strada facendo, perché io voglio fare l’imprenditore. Voglio essere il primo a credere in me stesso, voglio imparare, prendermi i miei tempi, sbagliare e riprovarci. Quindi non mi interessa avere soldi dai fondi, mi interessa di più indebitarmi fino al collo piuttosto.
Io noto, rispetto a una o due generazioni fa, che i ragazzi di oggi hanno una propensione ad abbracciare i fondi che io non ho mai visto in passato. Oggi ci sono startup o format della ristorazione che dopo il primo punto vendita fanno entrare i fondi per scalare velocemente il progetto senza sapere se quella cosa andrà bene o se sono semplicemente aperture forzate. Con Burgez non facciamo aperture forzate, apriamo se c’è richiesta, e quest’anno apriremo altri 10 punti, il doppio di quelli che già abbiamo. Questo non è merito di un fondo ma è imprenditoria old school, come si faceva una volta. Non escludo che fra alcuni anni le cose possano cambiare, però in questo momento ci interessa costruire un’azienda sana che stia in piedi con le sue gambe. All’inizio pensavo che fare entrare un fondo fosse sinonimo di successo, oggi invece penso che i fondi entrino in società perché le attività hanno necessità di farli entrare.
È uscito da poco il tuo ultimo libro: Marketing Luther King Reloaded. Di cosa parla? Perché dovremmo leggerlo?
Quello appena uscito è un libro che sono riuscito a leggere in anteprima e devo dire che mi è piaciuto. Non ho interesse a sponsorizzarlo, però credo che sia il miglior libro di marketing che io abbia mai letto.
A parte gli scherzi, è un libro che secondo me è fondamentale perché parla del marketing della vita di tutti i giorni prima ancora che del marketing aziendale. Nel libro dico che quando tua figlia ti chiede la paghetta, sta facendo marketing; quando fai l’amore con una persona conosciuta la sera stessa, stai facendo marketing; la pandemia è marketing; le banche fanno marketing. Il marketing esisteva prima di essere studiato sui libri o nelle aule, iniziamo a fare marketing da quando nasciamo.
Il marketing sono le azioni che attua un brand, inteso come carattere di una azienda, e attraverso quel carattere, le aziende svolgono delle azioni di marketing. Spostando questo concetto sulle persone, la persona è un brand, quindi ha un carattere e attraverso esso fa delle azioni. Non le chiamiamo azioni di marketing, però fanno parte della nostra vita. Questo libro parla del marketing che non vedi ma che ti condiziona la vita, oltre che del marketing aziendale di società come Nike o persone come Chiara Ferragni. MLK Reloaded è uno sguardo molto ampio su questa disciplina e credo che dia le basi che bisogna avere per proseguire nell’approfondimento e nello studio.
Ristoratore, scrittore o mente dietro un’agenzia di comunicazione. Se dovessi scegliere un solo lavoro per tutta la vita, quale sceglieresti?
Tra quelli elencati presi singolarmente probabilmente non ne sceglierei nemmeno uno. Potrei dirti l’imprenditore, perché imprendere su me stesso è l’unica forma di vera creatività che conosco. L’imprenditoria non è altro che “imprendere” su sé stessi dal momento in cui si ha la facoltà di capire dove si è posizionati. Un imprenditore lo è anche chi lavora in fabbrica o chi sta sotto un ponte, dipende però a cosa stai mirando.
D’altra parte, mi piacerebbe continuare ad essere creativo, laddove intendo come creatività tutto ciò che serve a continuare la creazione in atto. Quindi la mia risposta è che sceglierei di essere un imprenditore creativo per continuare a sfogare la mia creatività attraverso l’imprenditoria.
Intervista a cura di Marco Pili e Pietro Gallina