Fernando Alberti è Professore Ordinario di Economia Aziendale presso la LIUC – Università Cattaneo, dove dirige l’Institute for Entrepreneurship and Competitiveness e il percorso di laurea magistrale in Entrepreneurship and Innovation. È Institutes Council Leader e Affiliate Faculty member presso l’Istituto di Strategia e Competitività diretto dal Prof. M.E. Porter alla Harvard Business School. Dottore di ricerca in Economia delle Piccole Imprese, ha studiato alla Jönköping International Business School e alla London School of Economics.
Professor Alberti, nelle imprese italiane innoviamo abbastanza?
La risposta è no. Partiamo da alcuni dati del GEM (Global Entrepreneurship Monitor) che analizza quanto sono imprenditoriali e innovativi i vari paesi. In uno degli ultimi report sono stati presi in considerazione 43 paesi e l’Italia è risultata essere la meno innovativa di tutti su molti indicatori, ma soprattutto sul TEA, che misura la capacità di generare startup.
La situazione è sconfortante anche sul fronte dei brevetti; il paese Italia in un anno produce circa la stessa quantità di brevetti della sola università di Harvard.
Il problema della scarsa innovazione non è solo qualcosa che riguarda le startup, ma anche il mondo corporate e PMI. La somma delle spese annuali in ricerca e sviluppo delle PMI italiane è pari alla somma spesa da Siemens, la multinazionale tedesca.
L’Italia è un paese molto spaccato sotto il punto di vista delle startup, che siano esse innovative o meno. Abbiamo Milano come centro nevralgico e intere aree dello stivale completamente prive di questo tipo di attività, il che ci dice che manca un ecosistema, ossia un contesto favorevole a supporto dell’innovazione.
Che ruolo può avere l’università per stimolare l’innovazione? In Italia abbiamo un approccio incentrato sulla teoria accademica, non sarebbe il caso di sviluppare alcune skills più spendibili?
Noi abbiamo un’educazione ancora troppo tradizionale e rigida, con un approccio stantio e per nulla pratico, per nulla orientato all’applicazione. Le università dovrebbero fare corsi di entrepreneurship a tappeto. Anche nelle facoltà di biologia, perché è probabile che si sviluppino delle idee imprenditoriali anche in quel contesto e gli studenti devono poterle sviluppare.
C’è inoltre un tema di strumenti a che vanno forniti agli studenti e su questo le università hanno sicuramente delle responsabilità. Bisogna insegnare alle persone a fare un pitch, insegnargli a usare le nuove tecnologie e a sviluppare dei prototipi da presentare agli investitori. In questo modo si può davvero democratizzare l’imprenditorialità. In molte università eccellenti in giro per il mondo, gli studenti hanno accesso alla conoscenza, alle persone giuste, a professori competenti e aperti a iniziative. L’ateneo deve essere l’epicentro di un sistema accessibile, la conoscenza deve essere condivisa con l’ambiente per poter stimolare l’innovazione.
È fattibile pensare ad una Silicon Valley Italiana? Possiamo imitarla o è irrealistico?
La ragione per cui è difficile replicare la Silicon Valley in Italia sta negli elementi di competitività che hanno permesso lo sviluppo della stessa, in quel momento e in quel luogo. Tra questi il fattore chiave è la domanda locale: tutti i territori diventano competitivi intorno a quello che la domanda locale richiede. Non è un caso che la Francia sia così sensibile al mondo dell’estetica, dei profumi, della moda; è semplicemente ciò che chiede il cliente francese. Noi italiani siamo così sensibili e capaci nel design o nella moda perché viviamo in un museo a cielo aperto, abbiamo un livello di sensibilità estetica altissimo che magari gli olandesi o i tedeschi non hanno.
La domanda locale porta allo sviluppo di determinate competenze. In Silicon Valley la domanda locale si è evoluta dalla domanda militare alla domanda dei primi computer. Ciò che accade in un determinato luogo, in un determinato momento e per determinate ragioni non è replicabile e non deve esserlo, non credo che vada inseguito l’obiettivo di replicare la Silicon Valley in Italia perché non risponderebbe alla domanda locale. Non c’è bisogno di avere la Silicon Valley per essere competitivi, il tema infatti è “come lo fai”, non “cosa fai”. La chiave è il livello di produttività: dobbiamo imparare a fare meglio e in maniera innovativa ciò che già sappiamo fare bene e che ci contraddistingue.
Intervista a cura di Marco Pili e Pietro Gallina