È sempre più unico che raro trovare un presidente disposto a spendere milioni per la propria squadra del cuore, soprattutto nelle realtà come quella italiana, dove il calcio viene considerato sacro quasi quanto una religione. Altrove, come ad esempio in Inghilterra o in Germania (due campionati all’avanguardia), investire nelle squadre di calcio è diventato un modello di business: esse vengono infatti gestite come delle vere e proprie aziende chiudendo quasi sempre in attivo. Questa tendenza si sta estendendo anche agli altri campionati, sebbene nella maggior parte dei casi sia ancora in fase embrionale.
Il giro d’affari nell’ultimo decennio è incrementato notevolmente ed è sempre più frequente vedere un investitore cinese, arabo o americano impiegare le proprie risorse finanziarie nel calcio europeo, da sempre sinonimo di storia. Investire nel calcio è diventato un buon metodo di diversificazione del portafoglio. Uomini d’affari come Carlos Slim (il secondo uomo più ricco del mondo), Amancio Ortega (proprietario di Zara), George Soros (uno dei più grandi speculatori del mondo) e Paul Allen (co-fondatore di Microsoft) sono stati tra i primi, ma ce ne sono molti altri.
Gli investimenti nel mondo del pallone richiedono una pianificazione industriale economicamente sostenibile e sono diventati sempre più appetibili a causa dell’ampliamento del mercato (prevalentemente americano, asiatico e quello arabo); questo ha portato a una diversificazione delle entrate distribuita in modo migliore, con incassi da plusvalenze di mercato, botteghino dei biglietti e abbonamenti, diritti televisivi in crescita, incremento delle entrate dagli sponsor e maggiori ricavi dal merchandising. Questo trend di ampliamento del mercato sembra destinato a crescere ulteriormente, e di conseguenza i fatturati; un forte segnale è la volontà del governo cinese di introdurre il calcio come materia obbligatoria d’insegnamento nelle scuole elementari e medie, con un investimento complessivo di 850 miliardi per i prossimi dieci anni, fatto che potrebbe attirare un ulteriore interesse per questo sport sul mercato orientale.
Nelle scorse settimane sono circolate notizie su un’offerta da 1,1 miliardi di euro da parte di un consorzio di investitori capitanato da Mark Zuckerberg per il Tottenham Hotspurs, squadra del nord di Londra che è riuscita ad incrementare notevolmente il proprio valore portandolo a 550 milioni di euro nel giro di pochi anni (anche a ritmo del 7-8% annuo). Non è la prima volta che il fondatore di Facebook decide di avvicinarsi al mondo del calcio: giusto poche settimane fa è riuscito a chiudere un accordo con la Fox in merito ai diritti per la trasmissione in streaming della Champions League negli Stati Uniti.
Il calcio inglese è sempre stato affascinante e molto appetibile per gli investitori, che negli ultimi anni hanno visto aumentare il numero di squadre che a fine stagione riescono a chiudere in attivo (dal 2014 lo hanno fatto tra il 60 e il 75% delle società militanti in Premier League, nonostante le spese ingenti). Per il triennio 2016-2019 è stata stanziata la somma di 5,17 miliardi di sterline, vale a dire quasi 6 miliardi di euro al cambio attuale (cifra equivalente al fatturato annuo della Pirelli), per i diritti televisivi della Premier League, che vengono distribuiti per il 50% in parti uguali alle venti squadre del massimo campionato inglese, per il 25% in base ai risultati sportivi e per il rimanente 25% a seconda del numero di partite trasmesse. Ad oggi si possono vedere 168 partite su 380 complessive (nel 2015 ne venivano
mandate in onda 154), quindi i potenziali ricavi dai diritti televisivi hanno ancora ampi margini di crescita.
Rispetto alla Premier League, che complessivamente fattura tra i 5 e i 6 miliardi all’anno e che è riuscita a raddoppiare il fatturato nel giro di quattro anni (nel 2012/13 aveva un fatturato di circa 3 miliardi), gli altri campionati crescono meno: la Germania si stanzia al secondo posto con poco più della metà del fatturato, a seguire il campionato spagnolo. La Serie A sta perdendo terreno rispetto alle prime tre a causa di un pessimo piano industriale: si punta tutto sui diritti televisivi e poco sugli stadi di proprietà e sulla crescita dei brand, ad eccezione della Juventus, la quale sembra abbia intrapreso il modello organizzativo tedesco, il modello commerciale ispirandosi a quello spagnolo e la gestione dello stadio all’inglese. A parte questa eccezione, poche altre squadre italiane si muovono in tale direzione. Nel medio periodo questo potrebbe renderci sempre meno competitivi sui palcoscenici internazionali, eppure sarebbe un grosso peccato non trarre benefici da questa miniera d’oro che tanto piace a Zuckerberg.