Sono sempre di più in Italia i giovani che, finito il percorso universitario, si affacciano al mondo del lavoro guardando con interesse alla possibilità di avviare una propria attività attraverso lo sviluppo di un’idea o di un’innovazione in ambito tecnologico. Una possibilità che, a fronte di un mondo lavorativo ancora in notevole difficoltà e con una domanda carente, sembra perseguire il motto «non cercare un lavoro, crealo». Quando, però, dalla volontà si passa a dover fronteggiare la realtà del creare una startup, in Italia si presenta un panorama poco incoraggiante.
Negli ultimi anni sono stati fatti dal punto di vista legislativo dei passi importanti, a partire dallo Startup Act del 2012 e dal conseguente registro delle startup innovative, con diverse facilitazioni collegate. Nonostante questo, però, il giovane promotore di un’attività autonoma deve fare i conti con diversi tipi di difficoltà. Senza dubbio costituiscono una problematica significativa gli aspetti di tipo organizzativo e gestionale, per i quali, data la scarsa esperienza dei neofiti imprenditori, è preferibile rivolgersi a professionisti attivi nel settore (ad esempio i cosiddetti incubatori ed acceleratori di PMI). Lo scoglio indubbiamente più grosso che si trovano davanti i promotori di nuove aziende è l’accesso ai fondi necessari per finanziare e realizzare il progetto. In tale ambito, le molteplici forme di finanziamento presenti non sono riuscite comunque a colmare le lacune lasciate dal restringimento dell’erogazione del credito bancario dovuto alle sempre più stringenti regolamentazioni di Basilea, ma anche alle crisi che negli ultimi anni hanno scosso alcuni importanti istituti italiani.
Le possibilità, almeno sulla carta, sembrano essere molte: bandi europei (legati a Horizon 2020, il programma della Commissione Europea per il sostegno alle imprese innovative) e regionali, agevolazioni e finanziamenti del Ministero dello Sviluppo Economico, equity crowdfunding (uno strumento che secondo alcune previsioni avrebbe dovuto crescere molto), lending crowfunding, microcredito, minibond, venture capital e private equity. La presenza di tutti questi strumenti di finanza per l’innovazione dovrebbe rendere molto agevole la ricerca di fondi, eppure gli ambiti nei quali il sistema Italia è maggiormente carente sono proprio quelli relativi al funding e al market reach, ovvero la possibilità di finanziare il progetto e di dare uno sbocco di mercato allo stesso.
I dati testimoniano una situazione molto preoccupante. Una realtà che spicca negativamente sulle altre è proprio quella del venture capital italiano, che in due anni, tra il 2015 e il 2017, ha investito meno di 500 milioni di euro, contro i 6 miliardi investiti da fondi di venture capital in Francia e gli 11 miliardi in Inghilterra. Nel complesso, il quadro che emerge è ben fotografato da due recenti studi. L’Italia si piazza al ventiquattresimo posto (su 50 paesi analizzati) nella classifica redatta da Bloomberg dei paesi con un sistema economico che promuove e sostiene l’innovazione, dietro a Polonia e Malesia. Una classifica determinata in base all’ammontare degli investimenti in ricerca e sviluppo e dei finanziamenti (anche pubblici) alle piccole aziende innovative, ma anche in base alla presenza di società tecnologiche e alla concentrazione di ricercatori e di brevetti.
Ancora più specifico per la nostra analisi è il Global Startup Ecosystem Ranking. In questa classifica non vengono analizzati i paesi ma i contesti socio-economici più favorevoli alla nascita e allo sviluppo delle startup secondo diversi parametri, quali la capacità di finanziare i progetti, di raggiungere il mercato e di ottenere delle performance adeguate. Questo speciale ranking pone al primo posto la Silicon Valley (come ampiamente prevedibile) e vede in generale primeggiare gli Stati Uniti con New York, Los Angeles e Boston ai successivi tre posti, ma non contempla alcuna area geografica italiana al suo interno, a testimonianza di quanto sia difficoltoso realizzare e portare avanti una startup nel nostro paese.
All’orizzonte sembra però aprirsi qualche spiraglio di miglioramento. Sono da segnalare, infatti, anche alcuni risvolti positivi, soprattutto legati a provvedimenti legislativi degli ultimi anni. Per esempio, le misure relative a iperammortamento e superammortamento del piano Industria 4.0 hanno portato l’industria italiana a spendere 1,6 miliardi di euro in innovazione nel 2016-2017, con una crescita del 27% rispetto al periodo precedente: un elemento molto incoraggiante soprattutto in un’ottica di definitiva uscita dalla crisi.
La classifica Bloomberg 2017 già citata ha comunque visto un miglioramento di due posizioni dell’Italia rispetto al periodo precedente e un’ulteriore spinta dovrebbe arrivare dall’aumento degli investimenti dei privati in questo settore, grazie al lancio dei PIR (Piani Individuali del Risparmio) e all’aumento delle detrazioni IRPEF dal 19% al 30% per gli investitori.
L’impulso più importante per sostenere l’innovazione in Italia non può che arrivare dal legislatore e i diversi provvedimenti messi in atto in questi anni cominciano molto lentamente a dare i primi frutti. Vista la situazione economica in leggera ripresa ma lontana dai livelli pre-crisi, il lavoro fatto non è ancora abbastanza e questi provvedimenti vanno protetti e potenziati perché possano dare dei risultati duraturi e crescenti.