A metà degli anni 90’, una bolla speculativa legata alle nuove tecnologie informatiche generò la crisi delle cosiddette aziende Dot-com. La sequenza attraverso la quale si sviluppò la crisi del Dot-com riprende il classico iter di qualsiasi crisi generata da una bolla speculativa:
- fiducia estrema da parte degli investitori nelle potenzialità di un prodotto/azienda;
- crescita rapida del prezzo del prodotto;
- evento che fa vacillare le aspettative di guadagni importanti;
- flussi di vendite elevate;
- crollo finale del prezzo del prodotto.
La sequenza sopra descritta si era osservata, difatti, nel sedicesimo secolo con i tulipani, nel 1840 in occasione del boom ferroviario, nel 1920 con automobili e radio, nel 1950 con riferimento ai transistor elettronici ed infine nel 1980 con gli home computers e le biotecnologie.
Nel 1994 con la quotazione di Netscape, la società che sviluppò il primo browser commerciale per internet, iniziò un ciclo definito come “New Economy”, che terminò tra il 2001 ed il 2002 con lo scoppio della bolla e con le conseguenze degli eventi dell’11 Settembre 2001. La New Economy si contrapponeva alla Old Economy, basata prevalentemente sul settore manifatturiero.
In pochi anni si assistette ad un sorprendente sviluppo di aziende operanti nel settore internet, o più generalmente informatico, chiamate appunto Dot-com companies. Molte di queste società erano prive di piani aziendali o addirittura di qualsiasi forma di profitto.
Nonostante ciò molti investitori, attraverso le IPO (Initial Public Offering), furono ben disposti a finanziare buoni propositi ed aspettative future. Quest’ultime finirono con l’autorealizzarsi a causa di massicci acquisti che, sostenendo i corsi azionari, portarono ad una marcata sopravvalutazione delle società emittenti.
Inaspettatamente, nel Marzo 2000, i bilanci pubblicati da diverse aziende iniziarono a mostrare risultati deludenti, fornendo evidenza che l’investimento nelle società del comparto poteva rivelarsi non profittevole. La bolla scoppiò il 10 Marzo 2000, quando il NASDAQ (l’indice dei principali titoli tecnologici) registrò il suo massimo intraday a 5.132,52 punti per poi chiudere la seduta a 5.048,62 , valore più che doppio rispetto all’anno precedente.
Il lunedì seguente iniziarono le vendite massicce, provocando una reazione a catena che portò in soli 3 giorni ad una perdita vicina al 9%. Nel corso del 2001 molte Dot-com companies fallirono o furono oggetto di acquisizioni o fusioni.
Solo il 50% delle società quotate nel 2000 erano ancora attive nel 2004, con quotazioni infinitesimali rispetto ai massimi riscontrati nel pieno della bolla.
Gli effetti del suffisso “Dot-com”
Due interessanti studi compiuti in via prevalente dal dipartimento di Finanza della Purdue University (Indiana), documentano la reazione dei corsi azionari di un cluster di aziende a seguito dell’annuncio di un cambio di nominativo.
Il campione consisteva in tutte le società quotate su NYSE, Amex, Nasdaq e OTCBB (Over The Counter Bulletin Board) che cambiarono il loro nome fra il 1 Giugno 1998 e il 31 Luglio 1999. Il primo studio, pubblicato nel Novembre del 2000, e quindi nel pieno della bolla speculativa, attesta che il cosiddetto effetto “Dot-com”, ovvero l’aggiunta nella denominazione aziendale del suffisso .com o di qualunque altra parola legata al comparto Internet, produsse nei 10 giorni a cavallo della data di comunicazione rendimenti anomali (abnormal returns) cumulativi nell’ordine del 74%.
Gli abnormal returns vengono calcolati come differenza fra i rendimenti attuali e quelli attesi; nel caso in questione fu utilizzato come rendimento atteso un benchmark chiamato “Amex Inter@ctive Week Internet Index” misurante la performance delle aziende del settore Internet.
Questi risultati sembrarono non essere causati da un effetto transitorio, poichè non ci furono evidenze di tendenze negative nei 120 giorni seguenti la data di annuncio. Tuttavia, lo studio resta più incline all’ipotesi di una frenesia generalizzata da parte degli investitori piuttosto che ad un’ipotesi di pricing razionale.
Il secondo studio, pubblicato nell’Aprile del 2004, analizza le reazioni dei corsi azionari al cambio di denominazione aziendale durante una fase di flessione dei mercati. In contrasto con la fase di boom del settore Internet, durante la quale si registrò un’ondata di aggiunte del suffisso Dot.com, nel periodo in cui la bolla scoppiò ci fu una drammatica riduzione nel ritmo delle aggiunte accompagnato da un rapido incremento delle cancellazioni del suffisso stesso.
Gli investitori reagirono positivamente nei confronti delle compagnie che rimossero il suffisso dal loro nome. Questo effetto produsse rendimenti anomali cumulativi nell’ordine del 64% per i 60 giorni a cavallo della data di annuncio. Tali risultati suggeriscono che i manager non solo considerano ciò che è ottimale per le politica finanziaria delle loro aziende da un punto di vista dei modelli tradizionali, ma tengono di conto anche l’attuale sentiment di mercato relativo alla politica stessa.
Il Taxpayer Relief Act
Esiste una teoria alternativa riguardante la bolla Dot-com che si pone da un’angolazione differente per osservare lo stesso fenomeno. Tradizionalmente si ritiene che esso sia iniziato nella seconda metà degli anni 90’ per terminare nel 2001, all’incirca con i fatti terribili dell’11 Settembre.
Altri studiosi identificano invece nell’Aprile del 1997 il periodo di inizio, e il Giugno 2003 come termine. Questi riferimenti ovviamente non sono casuali. Il 5 Agosto 1997 il Presidente Clinton firmò il cosiddetto Taxpayer Relief Act (TRA97), stipulato precedentemente nel mese di Aprile. Riducendo l’aliquota fiscale sui guadagni in conto capitale (capital gains) dal 28% al 20% per assets detenuti per piu di 18 mesi, e mantenendo invariata quella sui dividendi, il TRA97 comportò un sostanziale incremento nella volatilità dei rendimenti per quelle aziende che pagavano dividendi minimi o addirittura nulli rispetto a quelle che pagavano dividendi importanti.
Fu così fornito agli investitori un potente incentivo a trattare queste due tipologie di società in maniera molto differente, favorendo quelle che offrivano dividendi bassi o inesistenti a discapito di quelle che invece pagavano una fetta più significativa di utili. Nel Maggio 2003, con la sottoscrizione del “Jobs and Growth Tax Relief Reconciliation Act”, le aliquote fiscali per dividendi e capital gains furono nuovamente impostate uguali le une alle altre, così come era stato fra il 1986 ed il 1997. I corsi azionari ripresero in tal modo la stretta relazione che li lega ai loro dividendi per azione (dividends per share), e la volatilità venne ridotta.