L’Articolo 50 del Trattato di Lisbona ammette la possibilità per gli stati membri di uscire dall’Unione Europea. Tuttavia, non vi è nessuna legge che faccia cenno alla possibilità per un Paese membro di abbandonare l’euro dopo averlo adottato come valuta.
Sistemi a cambi fissi: la storia
Nella Storia i sistemi monetari a cambi fissi non hanno mai avuto una lunga vita. Gli ultimi due esempi più rilevanti il sono Gold Standard e Bretton Woods, durati, rispettivamente durati 43 e 27 anni.
Il Gold Standard
Il Gold Standard permetteva ai Paesi aderenti all’accordo di convertire la propria moneta direttamente in oro. Introdotto per la prima volta nel 1871 dalla Germania ed adottato da 15 degli Stati più ricchi dell’epoca, terminò a causa della prima guerra mondiale. La guerra rese insostenibili le spese pubbliche militari dei Paesi in conflitto, situazione che portò spesso i governi a stampare quantità di moneta eccessive per mantenere il tasso di cambio stabile.
Bretton Woods
Il sistema di Bretton Woods, istitutito nel 1944, prevedeva che le valute dei Paesi aderenti dovessero essere convertibili tra di loro ad un prezzo fisso ed a un tasso di parità con il dollaro (con una banda di oscillazione massima del 2%), a sua volta convertibile in oro. Gli Stati Uniti si assumevano l’impegno di mantene stabile il rapporto del valore del dollaro con quello dell’oro e gli altri Stati aderenti dovevano far sì che fosse rispettato il cambio rispetto al dollaro. Gli accordi saltarono per colpa di un’improvvisa scelta politica di Nixon, che decise di annullare la convertibilità del dollaro con l’oro nel 1971. Il sistema era stato messo in crisi dalla crescente spesa pubblica degli USA per la guerra in Vietnam e per il fallimentare progetto “Great Society”.
Perchè abbandonare l’euro sarebbe un caso a parte
L’euro come moneta unica, che dal punto di vista macroeconomico è paragonabile ad un comune sistema a cambi fissi, fu una risposta alla più profonda esigenza politica di ampliare il processo di integrazione europea. Per sancire la profondità della scelta, i Paesi fondatori decisero non solo di creare un’area valutaria unica attraverso accordi internazionali, ma anche di stampare la stessa moneta. Questa rappresenta solo una delle numerose rigidità legali e tecniche che rende l’euro un sistema monetario sui-generis. Lo stesso Mario Draghi ha più volte definito l’euro un “processo irreversibile”.
Nonostante gli ultimi segnali di debolezza della crescita in eurozona, con cali della produzione in Germania, disordine sociale in Francia e primi segnali di recessione in Italia, oggi è improbabile l’avvenire della fine dell’euro nel breve termine. Il crescente sentimento politico sovranista, gli alti livelli di indebitamento pubblico di alcuni stati membri, la diminuita convergenza a seguito della crisi dei debiti sovrani sono però tutti elementi che se non affrontati in tempo potrebbero far precipitare la situazione.
I tre scenari possibili
Nel lungo termine le cause scatenanti di un’eventuale fine della moneta unica potrebbero essere tre: una scelta prettamente politica di un Paese a uscire dall’euro e/o dall’UE, uno shock endogeno incontrollabile (il “Cigno Nero) o una eur-exit, concordata dalle istituzioni.
Scelta politica
Così come fece Nixon nel 1971, così come è successo con la Brexit, non è da escludersi che il governo di uno degli Stati dell’eurozona decida di abbandonare l’euro e l’UE. Un effetto a catena potrebbe destabilizzare tutta l’eurozona, soprattutto se lo stato fosse un player rilevante all’interno dell’area. A fare da paraurti per una situazione simile ci sono però le Clausole di Azione Collettiva, applicate a tutti i titoli di stato con scadenza superiore ad un anno.
Le Clausole di Azione Collettiva, introdotte dal Meccanismo Europeo di Stabilità a fine 2012 in piena crisi dei debiti sovrani, lasciano ampi margini di trattativa agli Stati con i creditori privati in caso di default. Tuttavia, impediscono la convertibilità del debito in valuta diversa dall’euro, rendendo così impossibile svalutare il debito rimborsandolo con una valuta più debole. La Brexit ha però già messo in luce quanto lungo, complesso, tortuoso ed imprevedibile potrebbe essere il cammino verso una risoluzione pacifica a seguito di uno strappo politico così profondo. In caso di uscita unilaterale di un Paese che ha adottato l’euro dall’Unione, la trattativa sarebbe più complicata di quella ancora in corso tra UK ed UE, poiché oltre ai governi coinvolgerebbe anche Banche Centrali e creditori privati.
Cigno nero
Nell’eurozona Francia, Spagna, Belgio, Portogallo, Italia e Grecia hanno livelli di debito pubblico vicini o superiori al 100% del PIL. Di fronte ad uno shock endogeno molto grave, andando incontro ad una grave recessione e/o deflazione, tutti questi Paesi rischierebbero l’insolvenza. L’eventuale default di un solo Paese potrebbe scatenare un effetto a catena incontrollabile. Questo per via dell’alto livello di interdipendenza del sistema bancario europeo, detentore di larghissima parte dei debiti pubblici nazionali.
Euro-exit concordata
Nel medio-lungo termine è possibile che un gruppo rilevante di Paesi dell’eurozona, o tutti, decidano di rifondare l’area monetaria. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha avanzato l’ipotesi di ripristinare un sistema a tassi di cambio flessibili. Questo pur esprimendo la sua preferenza per un processo di riforme volto ad ottimizzare l’eurozona mantenendo la moneta unica. L’economista Luigi Zingales ha ideato l’introduzione di una doppia moneta, per i Paesi di nord e sud Europa. Hass e Ritzen hanno invece proposto di fissare delle regole fisse sui bilanci pubblici che, una volta superate, causerebbero l’immediata uscita dall’eurozona.