La crisi economica in cui si è ritrovato il Giappone può essere ricondotta a tre cause scatenanti: un forte debito pubblico, che però è facilmente gestibile poiché è al 90% di proprietà del paese, l’inarrestabile invecchiamento della popolazione nipponica e la crescita dell’economia cinese, che sta attuando una feroce concorrenza a livello mondiale. Riguardo la politica monetaria, il governo si è prefissato l’obiettivo di mantenere il tasso d’inflazione al 2%, attuabile soltanto attraverso massicci acquisti di obbligazioni da parte della Banca Centrale Nipponica. Per le politiche fiscali l’intervento statale prevede un tentativo di stimolo dell’economia nipponica, senza però provocare un ulteriore aumento del debito pubblico. La tassa dei consumi è stata alzata all’8% nel 2014, e si prevede che subirà un ulteriore aumento nei prossimi anni. Sul lato delle spese sono stati approvati, in più riprese, provvedimenti per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie. Secondo previsioni di Tokyo il disavanzo pubblico dovrebbe essere eliminato entro il 2020. La colonna portante dell’Abenomics (nome dato alle iniziative di stampo economico avviate da Abe) è però la terza freccia: la riforma strutturale. L’apparato economico giapponese è caratterizzato da una tremenda burocrazia, appesantita da regole complesse, consuetudini e procedure che rallentano la programmazione economica dello stato. Inoltre, le strette connessioni tra burocrazie, imprese e interessi politici si traducono fin troppo spesso in scambi di favori che, in seguito, diventano veri e propri casi di corruzione. Abe deve anche affrontare le inefficienze, nonostante la crescita registrata nel terzo semestre, dell’apparato industriale e del settore agricolo, i quali rappresentano un costo insostenibile per l’apparato statale. Inoltre il governo deve ancora attuare una riforma definitiva del mercato del lavoro che non si può ulteriormente rinviare.
Quali sono dunque i risultati dell’Abenomics, avviata nella primavera del 2013? Dopo un brillante inizio sembrava prevalere un clima di attesa e di parziale delusione. Gli effetti della politica monetaria sono stati molto positivi: lo Yen si è svalutato di circa il 30% contro l’Euro e il Dollaro americano e la Borsa di Tokyo si è ripresa, con l’indice Nikkei cresciuto di più del 40%. In entrambi i casi i guadagni sono avvenuti nei primi sei mesi, successivamente gli andamenti sono stati debolmente positivi con forti oscillazioni. Le esportazioni giapponesi sono state favorite dalla debolezza dello Yen, con ricadute positive sui profitti aziendali. Le aspettative dei consumatori sono diventate certamente più ottimistiche, con benefici effetti sugli acquisti, in particolare di beni di lusso. Le aspettative delle imprese non sono invece mutate in modo sostanziale. L’aumento dei prezzi sta erodendo il potere delle famiglie in assenza di incrementi salariali. Eppure questo sarebbe un aspetto chiave per il successo delle nuove politiche: se i salari reali diminuiscono, la domanda di consumi si contrae e le aspettative ritornano negative. La vera, profonda rivitalizzazione dell’economia giapponese richiede che la distribuzione dei redditi cambi sotto due aspetti principali: le imprese devono aumentare i salari e distribuire maggiori dividendi (riducendo i profitti non distribuiti) e lo stato deve spostare il peso della tassazione dai lavoratori ai pensionati, come pure dai redditi d’impresa ai consumi. Nel terzo semestre del 2016 i dati dell’economia danno segnali positivi. La crescita è stata sostenuta dall’aumento delle esportazioni e dal contemporaneo calo delle importazioni. Infatti il commercio ha contribuito per 1,8 punti percentuali di crescita. Il dato negativo, però, riguarda il ruolo dei consumi interni che hanno rappresentato solamente lo 0,1 per cento.