Le banche, poggiando la loro attività caratteristica sulla fiducia dei clienti, presentano una regolamentazione basata sulla solidità patrimoniale, che ha lo scopo di eliminare o, quantomeno, ridurre il rischio di default. La regolamentazione è distinta a seconda delle diverse realtà operative nazionali, ma in larga parte poggia sulle norme stabilite dal Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria.
Gli Accordi di Basilea sono redatti dal Comitato di Basilea, costituito dagli enti regolatori del G10, ed hanno lo scopo di fornire linee guida in materia di requisiti patrimoniali per le banche. L’esigenza di una regolamentazione sovranazionale fu resa evidente dal fallimento della Herstatt Bank nel 1974. Tale banca era la trentacinquesima per dimensioni in Germania e, a causa di alcuni investimenti sbagliati sul Forex, accumulò perdite che erano dieci volte superiori al capitale.
I regolatori nazionali decisero pertanto di procedere alla liquidazione forzata; tuttavia gli uffici della Banca situati a New York, che non erano soggetti ad essi, continuarono ad operare fino alla chiusura dei mercati e le controparti con cui avevano intrattenuto rapporti quel giorno non ricevettero più alcun pagamento. La regolamentazione nazionale mostrò così tutti i limiti e si arrivò, sotto l’egida della Banca dei Regolamenti Internazionali, alla creazione di un Comitato per la Supervisione Bancaria (BCBS).
Basilea I e II
La prima deliberazione, Basilea I, fu emanata nel 1988 e riguardava soltanto i requisiti patrimoniali per far fronte al rischio di credito. In tale accordo si è avuta per la prima volta una definizione universalmente riconosciuta del capitale minimo bancario. Il ragionamento di base è molto semplice: ad ogni apertura di credito deve corrispondere una quota di capitale accantonata in via precauzionale, la cui percentuale è direttamente proporzionale alla rischiosità stessa del prestito concesso.
Tale accordo con il passare del tempo mostrò notevoli limiti e pertanto nel 1996 fu stabilito che il capitale minimo dovesse considerare sia il rischio di credito che quello di mercato, il quale diventava sempre più rilevante con la crescente globalizzazione in ambito finanziario. Nel 2004 l’Accordo di Basilea II introdusse il rischio operativo, connesso all’inadeguatezza delle procedure e a tutti quei problemi che possono interferire con la normale attività della Banca.
Basilea III e IV
La crisi finanziaria del 2008 ha mostrato i limiti dell’Accordo di Basilea II ed ha pertanto spinto le autorità sovranazionali ad una completa revisione del sistema regolamentare, poiché molte banche, pur avendo mostrato notevoli elementi di criticità e fragilità, presentavano comunque requisiti patrimoniali coerenti con quelli stabiliti da Basilea II. Per tali ragioni il Comitato di Basilea ha proposto un generale rafforzamento delle regole riguardanti il capitale e la liquidità, in modo da rendere il sistema bancario più solido e capace di assorbire gli shock finanziari senza trasmetterli all’economia reale. Il nuovo sistema, approvato nel 2010, è entrato in vigore nel dicembre 2013 ed il suo completo recepimento fu previsto per il 2019.
Tale accordo può essere visto come una struttura basata sui seguenti tre pilastri.
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Requisito patrimoniale: si ha una definizione maggiormente armonizzata di capitale di vigilanza e la creazione di requisiti più elevati.
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Controllo prudenziale: riguarda la strategia per il controllo dell’adeguatezza patrimoniale adottata dalle singole banche, che deve essere verificata ed approvata dalle Autorità di Vigilanza.
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Disciplina del mercato: riguarda la comunicazione finanziaria che la Banca deve fornire in modo periodico al mercato per permettere una corretta valutazione del rischio.
Tra le principali novità introdotte da Basilea III si ha l’introduzione di misure anticicliche volte a favorire la costituzione di cuscinetti di capitali duranti le fasi recessive. Tale manovra serve ad innalzare i mezzi patrimoniali, che possono essere utilizzati nelle fasi di tensione di mercato preservando la dotazione patrimoniale. Inoltre, per la prima volta, è stato introdotto un vincolo alla leva finanziaria, il Leverage Ratio. Questo requisito serve a limitare il rapporto tra il capitale della banca e il volume delle attività e delle esposizioni fuori bilancio, con l’obiettivo di prevenire situazioni di deleverage che avrebbero impatti negativi sull’intero sistema finanziario e sull’economia reale.
Nel 2017 sono state riviste le regole di Basilea III, in vista degli obbiettivi identificati nel 2010 per evitare shock finanziari sistemici. Tali modifiche, che hanno reso un po’ più stringenti le regole già previste, sono state definite come il passaggio a Basilea IV, anche se in realtà non c’è stato un vero e proprio nuovo accordo.
I nuovi requisiti
Gli Accordi di Basilea III hanno rafforzato i requisiti per il controllo della liquidità con l’introduzione di due indici, uno relativo al breve periodo e l’altro al medio-lungo periodo, volti appunto al costante monitoraggio della liquidità della Banca.
Il primo indice, il Liquidity Coverage Ratio (LCR), è dato dal rapporto tra le attività liquide di elevata qualità (cioè solo quelle attività che possono essere liquidate velocemente con una ridotta perdita di valore) e i deflussi di cassa in caso di stress nei successivi 30 giorni (si considerano stabili il 95% dei depositi della clientela al dettaglio). Secondo i requisiti, tale rapporto deve essere maggiore di uno.
Il secondo indice, il Net Stable Funding Ratio (NSFR), anch’esso maggiore di uno, è dato dal rapporto tra attività fisse (patrimonio netto e passività con scadenza superiore ad un anno) e risorse stabili (poste dell’attivo con vita superiore ad un anno).
Gli Accordi di Basilea III hanno avuto anche un enorme impatto sui modelli interni che vengono utilizzati dalle banche per la stima dei rischi e che hanno mostrato notevoli criticità durante la recente crisi finanziaria. L’aspetto più rilevante riguarda il passaggio dal Value at Risk (il VaR, di cui abbiamo parlato in questo articolo) ad un’altra misura di rischio, l’Expected Shortfall, che essendo più conservativo rispetto al primo comporta un aumento del capitale detenuto a fini prudenziali.