Warren Buffett è senz’altro uno degli investitori di cui si parla di più, ne abbiamo trattato anche noi in diversi articoli (vedi qui, qui o qui per esempio) a proposito delle sue strategie, della sua filosofia di investimento e delle sue chiavi di lettura atipiche riguardo concetti economici che vengono trattati/insegnati nelle università. Pertanto, tralasciando una pressoché inutile presentazione del noto “oracolo di Omaha”, questo articolo si propone di fornire una misura più precisa e quantificata dell’abilità (skill) di Buffett nell’investire, andando a comprendere la sua alpha, ossia il rendimento residuale non spiegato.
Warren Buffett e il suo posizionamento
Per capire come Buffett si posiziona in termini di perfomance, prenderemo in considerazione due indicatori aggiustati per il rischio: lo Sharpe Ratio e l’information Ratio (per una dettagliata spiegazione vedi qui). Lo Sharpe Ratio di Berkshire Hathaway, compagnia di assicurazioni da lui guidata, ha riportato un valore di 0.76 che, nonostante ad un occhio inesperto possa sembrare basso, in quanto inferiore all’unità, in realtà se lo si compara con i valori riportati da ogni altra azione esistente sul mercato, o con i valori riportati da mutual fund con una storia trentennale, si scopre che è sensibilmente superiore, basti pensare che il Market Sharpe Ratio è pari a 0.39. Il suo information ratio è invece di 0.66, un risultato che lo posiziona nuovamente nella coda destra della distribuzione. Le figure mostrano la distribuzione degli informatio ratios annualizzati di tutti i fondi a gestione attiva degli ultimi 30 anni (figura 1) e di tutto l’universo delle azioni (figura 2).
Quali sono le variabili che spiegano la performance di Buffett?
Seguendo l’approccio dell’Arbitrage Pricing Theory (APT), nell’ambito accademico sono stati trovati alcuni fattori che concorrono a spiegare il rendimento di un’azione. In particolare, è stato trovato che azioni molto capitalizzate, oppure che hanno un elevato Price-To-Book-Value (P/BV), tendono ad avere rendimenti inferiori rispetto le azioni di società a bassa capitalizzazione (size anomaly) o aventi un basso P/BV (value anomaly), o ancora, che azioni in crescita nell’ultimo periodo (trend di breve periodo) tendono ad avere rendimenti superiori rispetto quelle in decrescita nel medesimo periodo (momentum anomaly). A queste “anomalie” sono associati dunque dei premi in termini di rendimento e, pur ammettendo che Buffett riesca a sfruttare la size, la value e la momentum anomaly, ottenendo così i relativi premi, ed effettuando dunque la relativa regressione, non si spiega comunque il rendimento così elevato che egli riesce ad ottenere. In altri termini, una parte residua del suo rendimento rimane non spiegata dal modello. Ciò ha fatto interrogare molti accademici e practitioners sull’efficienza del mercato, ed è divenuto centro di dibattito da anni.
Prima di addentrarci più nel dettaglio nello stile di investimento di Buffett, è opportuno effettuare due considerazioni riguardo l’uso della leva e gli investimenti in aziende quotate.
La leva di Buffett
L’uso della leva è da sempre uno strumento utilizzato al fine di amplificare le perfomance (sia positive che negative), ma quella di Buffett presenta una peculiarità: facendo parte di una società assicurativa può avere accesso al cosiddetto “insurance float”, ossia l’insieme dei premi che la società riceve in quanto assicuratrice. Esso può essere considerato come una forma di debito, in quanto, in caso di sinistri, la società dovrà pagare al posto dell’assicurato, mentre nel frattempo incassa i premi. Considerando che Berkshire Hathaway ha ottenuto un rating di AAA dal 1989 al 2009, e considerando la peculiare attività assicurativa che svolge, è stato stimato che il costo del “debito” si assesta intorno al 2.2%, ossia sotto di 3 punti percentuali rispetto il Treasury Bill (in altre parole, addirittura sotto il risk free). Questa condizione privilegiata di leva ha sicuramente consentito a Buffett di potenziare le perfomance in maniera consistente e a costi contenuti, specialmente per titoli a basso beta.
Società quotate vs Società Private
L’excess return di Berkshire può essere decomposto come la media ponderata dei ritorni di società quotate e private, per l’opportuno grado di leva. La performance delle società quotate dunque misurerà l’abilità di stock picker di Buffett, mentre la performance delle società private catturerà la sua abilità come manager. È stato riscontrato che in media le azioni quotate detenute dalla società costituiscono il 37% del totale investito, e tendono solitamente a sovraperformare le azioni di società non quotate. Sarebbe dunque lecito chiedersi se Buffett sia più bravo come stock picker (ossia nel scegliere le azioni in cui investire) che come manager.
La soluzione di Frazzini, Kabiller, e Pedersen
Giunti a questo punto, una domanda sorge spontanea: in base a quali criteri Buffett seleziona le azioni? Azioni a basso rischio (“sicure”, con basso beta e volatilità), economiche (azioni sottoquotate con bassi ratios come P/BV) e di alta qualità (profittevoli, in crescita, e che pagano dividendi) hanno performance positive in generale, non solo perché Buffett le compra. Quindi ciò vuol dire che la performance è guidata da una abilità idiosincratica di Buffett che non può essere quantificata? Avendo notato la tendenza di Buffett a comprare azioni con basso rischio e di alta qualità, nel celebre paper “Bufett’s Alpha” Frazzini, Kabiller e Pedersen hanno aggiunto nel loro modello di regressione, ai tradizionali fattori dell’APT, altri due fattori: il betting-against-beta (BAB) e il quality-minus-junk (QMJ). Il primo è un fattore che esprime la tendenza ad a comprare azioni “safe”, ossia con basso beta (questo fattore riesce a catturare tale tendenza perché è costruito come un portafoglio long-short, ossia lungo su titoli a basso beta e corto su titoli ad alto beta, “scommettendo contro il beta”). Il secondo, invece, cattura la tendenza ad investire in azioni di qualità, ossia di società in crescita, profittevoli, “sicure” (basso beta) e che distribuiscono alti dividendi (anche in questo caso la tendenza è catturato attraverso la composizione di un portafoglio long-short, ossia lungo sui titoli con le caratteristiche definite “quality” secondo le preferenze di Buffett, e short sui titoli con le caratteristiche opposte). Essi hanno trovato che, così facendo, l’alpha non è statisticamente significativo e dunque la performance di Buffett può essere spiegata nella sua interezza.
Con le informazioni così raccolte, essi hanno creato un portafoglio che replica l’esposizione al mercato di Buffett e le sue strategie di stock-selection, includendo un livello di leva compatibile con lo stesso rischio attivo di Berkshire. Hanno poi trovato che questo portafoglio replica in maniera sistematica lo stile di Buffett e ottiene perfomances comparabili a quelle di Berkshire Hathaway. Sono riusciti così a decomporre lo stile di investimento de “l’Oracolo di Omaha”, riconoscendone però la straordinaria capacità per essersi accorto già da molto prima, in maniera implicita o esplicita, che tali fattori effettivamente funzionano, e che, combinandoli con principi di investimento saldi, gli hanno consentito di sopravvivere nei momenti più difficili.
In conclusione, il segreto del successo di Buffett risiede nella sua preferenza per azioni economiche, sicure, di alta qualità, insieme al consistente uso della leva, impiegata per amplificare i propri ritorni e resistere nel frattempo a inevitabili momenti di difficoltà.
Per ulteriori approfondimenti si consiglia al lettore di consultare il paper di Frazzini, Babiller e Pedersen “Buffett’s Alpha” a cui l’articolo si è ispirato, link.