Banca d’Italia è stata fondata nel 1893 ed ha assunto il ruolo di Banca Centrale italiana nel 1928, quando divenne l’unico ente con il potere di emettere moneta. Ai suoi vertici ci sono il Direttore Generale e, dal 1936, il Governatore, entrambi nominati dallo Stato. Questi scelgono i membri del Direttorio e del Consiglio Superiore, i maggiori organi decisionali dell’Istituto.
Banca d’Italia, come diverse Banche Centrali nel mondo, è strutturata come una società per azioni. Tuttavia, il consiglio d’amministrazione ha poteri indiretti, limitati, con la sola facoltà di approvare o respingere le decisioni degli organi interni. Inoltre, dal 2014 nessun azionista può avere più del 3% delle quote dell’Istituto. Quelli che ne posseggono di più pesano comunque, nel diritto di voto e nella divisione dei dividendi, come se avessero il 3% ma possono vendere le azioni in eccesso.
La situazione di partenza
Dopo il 1893 Banca d’Italia, il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia furono gli unici a poter emettere moneta, passando così da sei a tre enti autorizzati. I due Istituti del Mezzogiorno erano già da prima gli unici con un’amministrazione a maggioranza pubblica a stampare banconote. La nuova Banca, con una struttura incentrata sul Direttore Generale nominato dal governo, doveva mettere sotto controllo il settore finanziario del centro-nord, dopo le questioni emerse con lo scandalo della Banca Romana. Nonostante le forti partecipazioni pubbliche e gli strumenti istituzionali, però, i tre Istituti restavano di fatto regolati come normali società per azioni, delle quali chiunque poteva acquistare e vendere quote.
Le riforme del 1928 e del 1936
Due riforme segnarono l’inizio del ruolo di Banca d’Italia come Banca Centrale italiana, nel senso contemporaneo del termine. La prima, e più importante in questo senso, nel 1928, la rendeva l’unico ente del Paese con il potere di emettere nuova valuta e fu introdotta la figura del Governatore, da affiancare al Direttore Generale. Nel 1936, poi, furono inseriti una serie di articoli che ne affermarono in modo esplicito la natura pubblica. Divenne possibile avere titoli dell’Istituto solo per aziende operanti nel settore finanziario e sede legale in Italia. Con questa manovra le quote degli azionisti non più autorizzati a possederle furono espropriate dal governo.
Il potere di emettere valuta, prima dato solo in forma di concessione, divenne una prerogativa di Banca d’Italia. Pur partendo in una situazione iniziale di scarsa autonomia rispetto al governo, l’ente era stato reso un’istituzione a sé stante.
L’indipendenza della Banca con la riforma del 1947
Dopo il 1936 l’amministrazione di Banca d’Italia rimase per diversi anni sotto il ferreo controllo del governo, tanto che l’Istituto svolgeva perlopiù la funzione di uno strumento nelle mani dell’esecutivo. Nel 1947 però, con la necessità di agire in modo efficace e rapido per combattere la grave crisi inflazionistica che aveva colpito la lira nel dopoguerra, fu approvata una legge che garantiva libertà decisionale agli organi interni della Banca Centrale, eliminando la necessità di passare sempre per il governo. La nuova impostazione permise di ottenere successi che superarono le migliori aspettative, permettendo a Banca d’Italia di consolidare la sua autonomia istituzionale.
Banca d’Italia dopo l’adesione all’Unione Europea
I poteri della Banca Centrale italiana sono rimasti pressocché invariati dal 1947 fino al 1993, con l’adesione all’Unione Europea tramite il Trattato di Maastricht e l’inizio del processo per adottare la moneta unica ed istituire una Banca Centrale Europea. Con l’adozione dell’euro, resa effettiva nel 2001, Banca d’Italia ha ceduto gran parte dei suoi poteri alla BCE. L’Istituto della Penisola, nel sistema comunitario, si occupa soprattutto di svolgere una funzione di controllo sul settore finanziario, di elaborare strategie per attuare le decisioni UE ed emettere nuova valuta su commissione. Inoltre, attraverso il suo Centro Studi, Banca d’Italia pubblica importanti analisi sul quadro economico-finanziario italiano.
La struttura amministrativa interna, invece, non ha subito particolari cambiamenti. Le proposte sulle decisioni da prendere partono dal Direttorio, che le invia al Consiglio Superiore, il quale può approvarle come sono o inserire delle modifiche. Il Consiglio Superiore, poi, manda i documenti definitivi al consiglio d’amministrazione, che può solo votare a favore o contro, senza la possibilità di chiedere delle modifiche.
Il capitale azionario di Banca d’Italia e la riforma del 2014
Banca d’Italia come società ha un valore fisso stabilito per legge di 7,5 miliardi di euro, con 300 mila titoli del valore di 25.000 euro l’uno. Solo realtà pubbliche o private che offrono servizi finanziari chiave, come banche o agenzie di assicurazione, con sede legale in Italia possono detenere quote dell’Istituto. Inoltre, dal 2014 la legge non consente di detenere una percentuale della Banca superiore al 3%, ovvero 9 mila azioni. Chi ne ha una cifra maggiore conta sempre, nel diritto di voto e nella divisione dei dividendi, come se avesse il 3%. I titoli in eccesso potranno essere venduti ad altri enti autorizzati a detenerli o alla stessa Banca d’Italia.
La riforma del 2014, che ha avviato un processo ancora in corso nel 2021, mira prima di tutto a coinvolgere un maggior numero di operatori nella Banca Centrale italiana. Infatti, la presenza di più realtà nel consiglio d’amministrazione permette di mettere in gioco interessi distinti, portando i membri dell’assemblea ad accettare soluzioni a vantaggio non solo proprio ma del sistema finanziario nel suo insieme. Quindi, la misura del 2014 vuole far sì che nessun azionista abbia la forza di influenzare le decisioni facendo valere i propri interessi al di sopra di quelli del settore finanziario nella sua interezza.
La divisione degli utili
Oltre all’approvazione delle proposte, i soci di Banca d’Italia hanno diritto ad una percentuale degli utili, che derivano dalle operazioni di investimento dell’Istituto. La divisione dei guadagni viene stabilita dal Direttorio e dal Consiglio Superiore, con un documento che deve essere approvato dall’Assemblea Ordinaria dei soci, da convocare ogni anno entro il 31 marzo. Tuttavia, ci sono dei limiti imposti dalla legge. I ricavi netti possono essere destinati per un massimo del 6% agli azionisti, del 20% alle riserve ordinarie della Banca ed un altro 20% alle riserve straordinarie, per situazioni di emergenza. Il resto è destinato alle casse dello Stato, al quale quindi è garantito un minimo del 54%.
Gli azionisti di Banca d’Italia ad aprile 2021
Nell’aggiornamento sulla distribuzione delle quote di Banca d’Italia del 30 aprile 2021 risulta che ci sono solo tre realtà, tutte private, con più del 3% dei titoli. Si tratta di Intesa Sanpaolo, con il 17,13%, Unicredit, con l’8,56% e Banca Carige, con il 3,14%, che insieme contano il 28,83%. Sul limite massimo del 3%, invece, si trova un ente privato, ovvero Generali Italia, e sette pubblici, fra cui l’INPS e l’INAIL. In totale, considerando tutti, a inizio 2021 la Banca Centrale italiana conta 170 azionisti, fra pubblici e privati.