Con il termine “Basilea III” si fa riferimento ad un insieme di provvedimenti per la regolamentazione della gestione bancaria che vennero introdotti nel 2011 in risposta alla crisi finanziaria. Il corpus normativo si pone come obiettivi la promozione di un sistema bancario più robusto e definire una disciplina omogenea per aspetti cruciali dell’attività bancaria.
Basilea II e la crisi
Nel dibattito successivo alla crisi del 2007, il sistema normativo dell’intermediazione finanziaria fu criticato fortemente. Innanzitutto per la sua inadeguatezza nel limitare gli effetti dell’instabilità e, inoltre, per la sua incapacità di prevenire una crisi di dimensioni sistemiche.
A quel tempo la normativa in vigore era Basilea II. Essa dettava i requisiti patrimoniali minimi che le banche dovevano rispettare, imponendo un accantonamento di quote di capitale proporzionate ai rischi assunti, e conferiva alle Banche Centrali il potere di innalzare, a propria discrezione, i suddetti requisiti minimi.
Nonostante le disposizioni, la crisi si verificò lo stesso e gli intermediari bancari si trovarono impreparati. Ciò a causa dell’insufficiente liquidità detenuta per fronteggiarla.
Approfondendo le lacune emerse durante la crisi, si proseguì alla revisione dell’accordo di Basilea II ed i regolatori si espressero a favore dell’emanazione di un corpus normativo più rigido.
La Nascita di Basilea III
Tenuto conto delle dimensioni complessive assunte dal sistema finanziario, della nascita di intermediari ritenuti Too Big To Fail (TBTF), del loro eccessivo livello di leverage, nel 2011 fu varato l’insieme di norme noto come Basilea 3.
La sfida dei regolatori fu quella di creare un assetto normativo che riuscisse a conciliare i numerosi divieti posti in capo agli intermediari bancari con l’autonomia necessaria all’esercizio della attività stessa.
Con il nuovo provvedimento si tentò di rafforzare la capacità delle banche di assorbire shock derivanti da tensioni finanziarie ed economiche. Le nuove regole si inseriscono nell’ambito della vigilanza bancaria e riguardano sia la regolamentazione micorprudenziale, a livello di singola banca, che quella macroprudenziale, a livello di mercato.
Nel dettaglio gli accordi mirano ad uniformare il sistema finanziario e ad assicurare una disciplina omogenea su aspetti cruciali nell’esercizio dell’attività bancaria quali:
- un’adeguata capitalizzazione;
- una prudente gestione del rischio;
- una prudente gestione della liquidità.
Il pacchetto normativo contiene anche specifiche disposizioni volte al raggiungimento di una maggiore trasparenza informativa.
Aspetti legati alla capitalizzazione
Con il termine “patrimonio di vigilanza” si intende la quantità di denaro che la banca è obbligata a detenere a fronte delle sue attività di rischio, generalmente rappresentate dai prestiti. La scelta del livello ottimale di patrimonializzazione non è banale e richiede un’attenta ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi che ne derivano.
Per esempio, si ipotizzi un innalzamento del patrimonio di vigilanza. Gli effetti conseguenti sono di due tipi:
- Positivo: la maggiore quantità di capitale detenuto internamente alla banca garantisce più stabilità alla sistema finanziario;
- Negativo: la riduzione di redditività per l’istituto bancario. Infatti, a fronte di una maggiore percentuale di patrimonio detenuto, si registra una diminuzione del patrimonio che la banca può investire in modo profittevole. La minore redditività rende la singola istituzione meno interessante per gli shareholders e diminuisce la competitività di tutto il settore.
Alla luce di queste riflessioni, Basilea III ha lasciato inalterato all’8% il requisito patrimoniale complessivo richiesto alle banche.
Riserve di capitale: i Buffer
Nel nuovo assetto ha trovato conferma anche il sistema per il calcolo della rischiosità dell’attivo, già definito nel precedente accordo di Basilea II. Grazie al sistema è possibile stimare il requisito di capitale minimo per il rischio di credito. La rischiosità viene determinata come moltiplicazione tra l’importo dei prestiti concessi ed un certo coefficiente di rischio. Quest’ultimo varia in base al rischio specifico della controparte, secondo la logica che concedere un finanziamento ad un’impresa o ad uno Stato presenti un differente grado di rischio.
In risposta al problema della sottocapitalizzazione, l’accordo ha previsto per le banche una dotazione di mezzi patrimoniali di elevata qualità che fungano come cuscinetto nei momenti di tensione del mercato. In particolare, sono stati introdotti tre buffer di capitali aggiuntivi, di seguito descritti.
- La riserva di conservazione di capitale rappresenta una misura di protezione che permette alla banca di avere maggiore liquidità disponibile. Può essere utilizzata in evenienze particolari, quali periodi di tensione del mercato o casi di prestiti caduti in sofferenza. Le banche sono tenute a rispettare un livello di Common Equity Tier 1: la componente di massima qualità del patrimonio di una banca composto da azioni ordinarie e riserve. Il CET 1 deve essere pari al 4,5% delle attività ponderate per il rischio. Il buffer di conservazione del capitale impone di detenerne un ulteriore 2,5%, innalzando la percentuale complessiva minima al 7%.
- La riserva anticiclica costituisce una delle più significative innovazioni in materia prudenziale. L’obiettivo è quello di garantire che i requisiti patrimoniali imposti al settore bancario tengano conto dell’ambiente macro-finanziario nel quale gli istituti creditizi operano. La riserva anticiclica promuove un maggior accantonamento di risorse patrimoniali durante la fase espansiva del ciclo economico, per controbilanciare una loro eventuale scarsità nei periodi di recessione. La componente anticiclica svolge quindi una duplice funzione:
- dal punto di vista macroeconomico cerca di proteggere il settore bancario da periodi di eccedenza di crescita del credito aggregato, periodi che sono spesso associati ad un aumento del rischio a livello sistemico.
- dal punto di vista microeconomico evita che, nelle fasi di rallentamento dell’economia, gli eccessivi requisiti patrimoniali normativi imposti alle banche riducano la fornitura di credito, compromettendo l’andamento dell’economia reale.
Basilea III non ha indicato una percentuale fissa per questa riserva ma ha rimandato ai singoli regolatori nazionali la facoltà di introdurla in base alle condizioni di crescita dell’attività creditizia.
- La richiesta di una dotazione patrimoniale specifica per gli enti a rilevanza sistemica nazionale e globale. Per le due tipologie di istituti bancari, il Comitato di Basilea ha preso precauzioni ulteriori a ragione del fatto che un loro eventuale fallimento avrebbe ripercussioni gravissime sull’intera economia, con pesante impatto anche sui contribuenti.
Leva finanziaria
Per quanto attiene alla gestione del rischio, con l’introduzione delle nuove disposizioni normative i legislatori hanno dato risposta ad un’altra problematica emersa durante la crisi: l’eccessivo livello di leverage raggiunto da alcuni intermediari bancari.
Il leverage, o leva finanziaria, è il rapporto tra le attività ed il capitale azionario della banca. Operare investimenti con leva finanziaria significa acquistare o vendere attività finanziarie per un ammontare superiore al capitale posseduto. Con tale pratica è implicita la possibilità di ottenere rendimenti potenzialmente molto alti. Ciò è controbilanciato dal rischio di registrare perdite molto significative dovute alla svalutazione delle attività detenute in portafoglio.
Negli anni precedenti il 2007, le banche aumentarono oltremodo la propria leva finanziaria riuscendo a mantenere, almeno in apparenza, robusti coefficienti patrimoniali basati sul rischio. Tuttavia, nel momento più acuto della crisi, diversi intermediari creditizi si trovarono costretti a ridurre la propria esposizione. Ciò provocò un’ulteriore diminuzione dei prezzi delle attività che si sommò a quella già causata dal crollo del sistema finanziario. Si innescò in conseguenza un circolo vizioso composto da perdite, riduzione del capitale degli intermediari e fenomeni di contrazione del credito.
Per evitare il ripetersi di questa situazione e per limitare l’eccesso di indebitamento all’interno del sistema bancario, Basilea III introdusse il coefficiente di leva finanziaria. Semplice, trasparente e non basato sul rischio, esso integrò lo schema di regolamentazione patrimoniale basato sul rischio.
A partire dalla sua introduzione nel 2013, i regolatori identificarono nella percentuale del 3% una sana misura di leveraging, con l’intesa di una sua eventuale modifica se dovesse rivelarsi inadeguata.
Requisiti di informativa pubblica
Nell’ambito delle norme sull’informativa al pubblico e disciplina di mercato, con l’accordo del 2011, si rafforzò la regolamentazione dei prospetti informativi. Inoltre, venne imposto alle grandi banche operanti a livello internazionale di pubblicare trimestralmente i dati relativi all’indice di leva finanziaria, a partire dal primo gennaio 2015.
Al fine di rendere agevole un confronto tra gli indici di leva finanziaria di banche operanti in Paesi diversi e sottoposte a regimi contabili differenti, si uniformò il prospetto informativo sulle principali componenti dell’indice e si predisposero schemi comuni.
Aspetti legati alla liquidità
Oltre ai requisiti patrimoniali, da soli non sufficienti ad evitare la crisi, si rese necessario introdurre regole più stringenti sulla gestione del rischio di liquidità, definito come “l’incapacità della banca di far fronte, tempestivamente ed in modo economico, agli obblighi di pagamento nei tempi contrattualmente previsti”.
Durante la crisi, le banche entrarono in difficoltà non solo per la scarsa dotazione patrimoniale, ma anche per una conduzione poco prudente della liquidità. Tenuto conto di ciò, il Comitato di Basilea, elaborò un documento per la corretta gestione del rischio di funding. Inteso come il rischio che la banca non sia in grado di far fronte in modo efficiente a deflussi di cassa attesi ed inattesi. Nella stessa sede, si definirono due indici di liquidità: il Liquidity Coverage Ratio ed il Net Stable Funding Ratio.
Il Liquidity Coverage Ratio (LCR)
Il Liquidity Coverage Ratio (LCR) misura la vulnerabilità dell’istituto rispetto a crisi di liquidità nel breve periodo. Impone alle banche di detenere attività liquide di elevata qualità e non vincolate, adeguate a coprire deflussi monetari netti improvvisi e sostanziosi.
Sono definiti attivi liquidi di alta qualità le attività facilmente liquidabili sul mercato, anche in periodi di tensione e stanziabili presso la Banca Centrale, caratterizzate da alti rating creditizi e bassa volatilità. Perciò si intendono tutte le attività che, in caso di crisi di liquidità acuta, possono essere convertite in denaro entro 30 giorni con perdite modeste o nulle. L’indice deve assumere un valore sempre maggiore di 1.
Il Liquidity Coverage Ratio entrò in vigore a partire dal 2015 con un’applicazione progressiva negli anni per mitigarne gli effetti sull’economia reale. L’introduzione avvenne secondo i seguenti scaglioni: 60% nel 2015, 70% nel 2016, 80% nel 2017 e 100% dal 2018.
Il Net Stable Funding Ratio (NSFR)
Il Net Stable Funding Ratio (NSFR) incentiva il finanziamento attraverso fonti stabili al fine di rafforzare la resilienza su un orizzonte temporale di un anno. Venne istituito per assicurare continuità al Liquidity Coverage Ratio. Ovvero, per evitare che la banca sopravvivesse al primo mese, ma si trovasse in una situazione di difficoltà insormontabile nel periodo immediatamente successivo. L’obiettivo dell’indice è garantire un equilibrio tra l’attivo e il passivo di bilancio su un arco temporale di un anno.
L’indicatore permette di stimare il livello di copertura che le fonti stabili di finanziamento potranno avere su attività meno liquide. Espresso in termini percentuali, una sana misura si ha ogni qualvolta esso risulti essere maggiore del 100%.
Limiti all’operatività
L’accordo del 2011 introdusse limiti all’operatività delle banche e ad una proliferazione incontrollata di strumenti finanziari innovativi.
La linea adottata dalla nuova normativa non prevede il divieto a qualunque innovazione finanziaria, in quanto vengono riconosciuti i benefici che ne possono derivare. Bensì introdusse un insieme di regole in grado di disincentivarne un utilizzo distorto.
Gli strumenti cartolarizzati sono stati uno dei principali imputati della crisi e, per questo motivo, le autorità riservarono loro particolare attenzione. Una delle problematiche a cui Basilea III rispose era l’incapacità del mercato di valutare i rischi connessi a tali strumenti.
Nel dettaglio, per promuovere una corretta valutazione del rischio da parte degli intermediari, fu imposto un più alto livello di patrimonio di vigilanza da detenere a fronte di un numero elevato di titoli soggetti ad operazioni di cartolarizzazione.
Le operazioni di Cartolarizzazione
L’attenzione dei legislatori si rivolse in particolare alle operazioni di cartolarizzazione. La cartolarizzazione è una tecnica mediante la quale gli istituti bancari trasformano attività finanziarie indivise ed illiquide, in grado di generare dei flussi di cassa, in attività divisibili e vendibili. Ossia in strumenti finanziari trasferibili e negoziabili sul mercato.
La tecnica della cartolarizzazione trovò ampio utilizzo nei prestiti. Negli anni precedenti la crisi, le banche erano solite concedere prestiti con l’obiettivo di cartolarizzarli e trasferirli all’esterno, così da non conservarli in bilancio. Ciò era un disincentivo per l’istituzione creditizia ad operare una corretta valutazione del merito creditizio della controparte. Qualora il creditore fosse risultato insolvente, la banca non ne avrebbe avuto alcuna conseguenza, in quanto non possedeva più il credito nel suo bilancio.
Dunque, con Basilea III si impose alle istituzioni concedenti i prestiti di detenere in bilancio le tranche più rischiose di essi, scoraggiando fenomeni di moral hazard e rendendo il trasferimento del rischio solo parziale. Così l’intermediario diviene il primo garante in caso di perdite derivanti dalle attività cartolarizzate.