Più di 50 anni fa nasceva negli Stati Uniti il panino più famoso al mondo, il Big Mac. Venduto oggi in più di 100 paesi, ha da subito ottenuto una tale diffusione e popolarità da diventare nel tempo un’icona globale dei consumi. Proprio a partire da questi aspetti, nel 1986 la rivista The Economist ha ideato il Big Mac Index, uno strumento di misurazione per comparare il potere d’acquisto di diverse valute, che da allora viene pubblicato più o meno annualmente. L’indice ha fatto anche nascere il termine Burgernomics.
Il Big Mac Index è uno strumento informale di comparazione del potere d’acquisto di una valuta. Questa misurazione assume come valida la teoria della parità dei poteri di acquisto (PPP), ovvero l’idea per cui il tasso di cambio tra due valute tende ad aggiustarsi naturalmente, così che un insieme di beni (nel caso specifico il Big Mac, appunto) arrivi ad avere lo stesso costo in entrambe le valute considerate. Nell’indice di cui si parla il paniere è composto da un singolo Big Mac, così come viene venduto dalla catena di fast food McDonald’s.
Più nel dettaglio il Big Mac Index tra due paesi si ottiene dividendo il costo di un Big Mac in una nazione (nella valuta di quella nazione) per il costo di un Big Mac nell’altra nazione (nella rispettiva valuta). Questo valore viene confrontato con il tasso di cambio attuale; se è più basso, allora – secondo la teoria della parità del potere d’acquisto – la prima valuta è sottovalutata rispetto alla seconda, mentre se è più alto la prima valuta è sopravvalutata. Ad esempio, supponiamo che un Big Mac costi 2,00 sterline nel Regno Unito e 2,50 dollari negli USA: il tasso della parità di potere d’acquisto è 2,00/2,50 = 0,8. Se il tasso di cambio ufficiale è 1 dollaro statunitense per 0,55 sterline inglesi, allora la sterlina è sopravvalutata rispetto al dollaro, dato che 0,8 > 0,55.
Dollaro sopravvalutato?
Quest’anno i dati recenti del Big Mac Index mostrano il dollaro sopravvalutato con maggior decisione, mettendo in luce quanto il dollaro si trovi in una posizione di forza rispetto alla maggioranza delle valute, incluse quelle delle economie avanzate quali yen ed euro. «Il risultato – scrive l’Economist – suggerisce che il dollaro sia più forte, relativamente ai fondamentali, rispetto a qualsiasi altro momento storico degli ultimi 30 anni». L’indice mostra fra le poche eccezioni il franco svizzero: la moneta elvetica risulta sopravvalutata sul dollaro del 19%. Rispetto a sei mesi fa, tuttavia, la maggioranza delle valute ha perso terreno rispetto a un dollaro già forte, ha ricordato la rivista britannica. Non stupisce trovare nella lista delle monete svalutate il peso argentino e la lira turca, entrambe squassate da un deprezzamento che ha avuto ampia risonanza. Anche la sterlina, in un’ottica ampliata a cinque anni, risulta svalutata sul dollaro del 27%.
Questo genere di analisi, è bene sottolinearlo, non offre spunti operativi efficaci per mosse di breve periodo, visto che i tassi di cambio si adattano ai fondamentali della parità di potere d’acquisto in tempi relativamente lunghi. Tuttavia, ricorda l’Economist, «un’analisi dei dati risalenti al 1986 mostra che le valute ritenute sottovalutate dall’indice Big Mac tendono a rafforzarsi, in media, nei successivi dieci anni (e viceversa)». Nel complesso, quindi, il Big Mac Index può anche essere usato per dare un’istantanea informale dell’andamento delle valute in un certo periodo di tempo, così da stabilire quali si svalutano e quali invece sono sopravvalutate.
Nell’indice 2019 sono tre i paesi in cui il Big Mac costa più della tariffa base statunitense in dollari ($ 5,58): Svezia (+4,6%), Norvegia (+5%) e Svizzera (+18,7%). I paesi dell’area euro (-16,8%) sono al sesto posto della classifica, dopo il Canada (-8,9%). Seguono Danimarca (-17,5%), Israele (-17,8%), Brasile (-18,5%), Australia (-22%), Libano (-22,7%), Uruguay (-22,8%), Singapore (-23,3%), Nuova Zelanda (-24,9%) e Regno Unito (-27%), dove il Big Mac costa 3,19£.
È chiaro però che la metodologia dell’hamburger ha delle limitazioni nella stima della parità del potere d’acquisto. Per esempio tasse locali, livelli di competizione e dazi sull’importazione possono non essere rappresentativi dell’economia di una nazione nel suo complesso. Ciò nonostante, l’indice Big Mac viene ampiamente citato dagli economisti.
Non solo Big Mac index
Nel gennaio 2004, The Economist ha introdotto un indice gemello, l’indice Tall Latte. L’idea è la stessa, ma il Big Mac è sostituito da una tazza di caffè di Starbucks, riconoscendo la diffusione globale della catena negli ultimi anni. Con uno spirito simile, nel 1997 il quotidiano tracciò una “mappa della Coca-Cola“, che mostrava una forte correlazione positiva tra la quantità di Coca-Cola consumata pro capite in una nazione e il benessere della stessa.
Delle versioni modernizzate di tutto ciò possono essere individuate in uno studio di UBS che mostra il costo dei beni must-have dei millennials nei diversi paesi. In particolare sono stati selezionati alcuni tra i principali beni utilizzati dalla generation Y nel 2018: un iPhone, un laptop, un paio di jeans, un paio di sneakers, un abbonamento a Netflix, una tazza di caffè, un avocado e ovviamente il Big Mac. Undici sono le città scelte per l’analisi: New York, Parigi, Londra, Zurigo, Dubai, Hong Kong, Johannesburg, Mosca, Bangkok, Buenos Aires e Toronto.
Dalla ricerca, sorprende come una delle città in generale più costose come Hong Kong risulti invece essere per quanto riguarda i beni dei millennials ultima della lista. Qui il prezzo di un iPhone è di 1097 $, solo 9 dollari più costoso che a New York (che offre il prezzo più basso della lista). Viceversa Buenos Aires, una città che solitamente è percepita come relativamente economica, in questo studio è in realtà la più costosa per i millenials. Il culmine si individua nell’iPhone X che qui costa 2244 $ (quasi il doppio che nelle altre città). Un’altra nota curiosa riguarda Zurigo, che è la terza città con il prezzo dell’iPhone più economico. Qui però troviamo i prezzi più alti per jeans, Netflix e caffè.
Ad ogni modo, che si tratti di millennial index o di Big Mac Index, l’idea di prendere come riferimento un bene (o un paniere di beni) di uso comune al fine di valutare il potere d’acquisto nei vari paesi è ormai un tema consolidato tra gli economisti. Questo permette di capire anche come si modificano i consumi e il modo in cui evolve la cultura a livello globale. A dire il vero, per fare un’analisi neutrale si dovrebbero utilizzare beni standardizzati; infatti, le materie prime per produrre alimenti (quali il Big Mac) sono spesso fornite da produttori locali, rendendo il prodotto finito non perfettamente similare a livello di costo di produzione.