Davide contro Golia, Boutique contro Bulge-Bracket: rivoluzione nell’élite di Wall Street?
“Ho chiamato il principio secondo il quale ogni minima variazione viene mantenuta, se è utile, col termine di selezione naturale” – Charles Darwin
Chissà se Roger Altman, quando nel 1995 fondò Evercore, compagnia in lizza per un posto nell’olimpo dell’Investment Banking dominato dalle grandi banche d’affari, si rifece all’evoluzionismo darwiniano nella scelta di abbandonare Lehman Brothers per creare una nuova realtà destinata a crescere esponenzialmente nel successivo decennio.
Da allora, nella gabbia degli squali di Wall Street c’è posto per una nuova ed affamata specie: quella delle cosiddette boutique finanziarie. Sulla scia dei prestigiosi atelier del lusso, il termine acquista un significato anche in ambito finanziario: la boutique è un’istituzione di modeste dimensioni (in confronto ai giganti del settore) che garantisce un servizio su misura per un particolare segmento di mercato. La differenza dalle più note bulge bracket banks (JP Morgan, Morgan Stanley, etc.) è data da commissioni genericamente più basse e dall’assenza di molte funzioni garantite dagli altri players come i servizi di finanziamento, di market making e di ricerca. La strategia della differenziazione è però altamente funzionale e profittevole in un contesto di nicchia; la centralità del cliente diventa nuovamente un tema portante rispetto alla tendenza alla standardizzazione dei prodotti.
La strategia vincente dei manager delle boutique viene confermata dai dati. Le boutique hanno sovraperformato i competitors di 51 basis points su base annuale dal 1995, battendo il benchmark di circa 140 bps. Allo stesso modo gli investitori hanno beneficiato di un ritorno sull’investimento (ROI) dell’11% maggiore rispetto ai bulge.
Ma cosa trasforma queste piccole realtà in Re Mida dell’alta finanza?
Una delle motivazioni principali è collegata al rapporto confidenziale e alla discrezione. Come evidenziato da Ken Moelis, fondatore della Moelis & Company, essi rappresentano «i prodotti chiave da vendere ai potenziali clienti»: le informazioni devono essere condivise con un numero molto più grande di persone in una grande organizzazione, rendendo più facile una pericolosa fuga di notizie che potrebbe compromettere la trattativa.
Secondariamente è possibile identificare come fattore critico di successo la riduzione dei costi fissi rappresentati dai corposi stipendi dei bankers, i quali vedono però aumentare la parte relativa ai bonus sulle singole operazioni, che diventa un potente incentivo.
L’attenzione al cliente, come sottolineato da Michael Zaoui, fondatore della Zaoui & Co. Ltd, non riveste soltanto un valore strategico ma anche una garanzia da problemi di natura patrimoniale. Non potendo gestire molti progetti simultaneamente, i deals falliti sono molto più dolorosi da assorbire rispetto ad una normale banca d’affari.
Sicuramente la mentalità imprenditoriale rappresenta un altro punto di forza, grazie alla struttura più orizzontale (partnership) che permette di essere più agili, flessibili e innovativi. Al contempo la forza lavoro riveste un ruolo di primaria importanza: le boutique tipicamente assumono gestori di portafoglio di generazioni diverse (solitamente ex dipendenti di grandi banche d’investimento) per garantire una prospettiva olistica e l’abilità di specializzarsi in determinate nicchie/settori.
Un altro importante fattore di successo è legato ai limiti di legge, specialmente quelli relativi al tema del conflitto di interessi, che garantiscono uno spazio di manovra più ampio alle boutique. Ultimo ma non ultimo, il rapporto personale. A parità di condizioni, infatti, è psicologicamente preferibile operare con conoscenze personali piuttosto che con grandi organizzazioni dove è spesso necessario costruire nuovi rapporti e dove non si è in contatto diretto con le figure senior (ad esempio il fondatore o CEO).
E’ inoltre possibile osservare come il trend si sia delineato in modo più netto a seguito della crisi finanziaria post 2007 e della conseguente reazione di sfiducia verso l’élite del settore. Un tale contesto è diventato terreno fertile, insieme al costo sempre più basso dei sistemi IT, per diverse nuove realtà, che hanno anche rivestito un ruolo di primo piano nella rivoluzione dei loro settori di specializzazione. Ad esempio Allen & Company è stata una degli underwriter di Twitter e advisor di Facebook nell’acquisizione di WhatsApp.
Un altro dato è sicuramente significativo: nel 2016, tre tra le più grandi bulge-bracket (JP Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley) hanno visto i loro ricavi scendere del 4% mentre un pool di sei boutique (Lazard, Evercore, Houlinhan Lokey, Moelis, PJT Partners e Greenhill) ha aumentato collettivamente gli stessi del 15%. Nel caso specifico di Moelis, recentemente selezionato tra gli advisor per la quotazione di Saudi Aramco (probabilmente la più grande IPO della storia), i ricavi sono balzati dell’11% mentre l’utile operativo è cresciuto del 16%, evidenziando anche un miglioramento dell’efficienza interna. Al contempo la borsa ringrazia con performance annuali che vanno dal +40% per Lazard al +80% per Evercore, passando per il +60% di Moelis.
Ma fin dove può spingersi la crescita delle boutique? «La questione non è se possono crescere, ma se lo vogliono» – parola di Michael Zaoui. Oltre al problema della dimensione è ancora presente un certo scetticismo di base che porta molte istituzioni a rifiutare a priori il nuovo concetto di Investment Banking. Sicuramente ciò è legato anche al problema dell’eccessiva influenza del fondatore nelle performance delle boutique, che non garantisce un regolare sviluppo nel lungo periodo.
La partita è ben lungi dal termine; una battaglia fondamentale potrebbe essere nel tanto osannato terreno del fintech. In ogni caso sarà Davide contro Golia, Boutique contro Bulge-Bracket; ma il vincitore sarà inesorabilmente Wall Street e chi punterà sul cavallo più resistente al repentino cambio di scenario tra i titani della finanza.