Sono oramai alcuni decenni che il capitalismo si è radicato nelle culture sviluppate ed ha completamente modificato sia il modo di fare impresa sia l’approccio delle persone verso la scena politico-economica. Senza alcun dubbio abbiamo assistito ad annate gloriose, sia per quei Paesi che da sempre si sono distinti per le loro performance, sia per quelli che solo in tempi più recenti hanno conosciuto anni di sviluppo elevato e senza eguali, come i cosiddetti Paesi del BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica.
In questo arco di tempo le aziende hanno tentato di accaparrarsi il maggiore ammontare di profitti possibile in ciascun business in cui operavano, dando il via ad una lotta spregiudicata in cui il più forte acquisisce il più debole. Probabilmente il vero problema alla base del fenomeno sul quale ci si vuole soffermare è proprio questo: mentre i profitti aziendali aumentavano grazie alla ricerca del massimo profitto nel breve periodo, che privilegiava le attività speculative a fronte di una diminuzione degli investimenti di lungo periodo, i redditi delle famiglie sono rimasti stagnanti.
Una povertà globalizzata
Secondo i dati della Banca Mondiale, la quota percentuale di popolazione che vive con meno di 1,25 dollari al giorno è passata dal 56,2% del 1990 al 14,3% del 2008 nell’Asia Orientale, dall’1,9 allo 0,5% in Europa (pur avendo subito un rialzo dal 1993 al 1999, fino a quota 3,9%), e dal 5,8 al 2,7% in Medio Oriente e Nord Africa. Ad oggi i poveri sono concentrati soprattutto nell’Africa subsahariana, dove quasi il 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
Un’unità di misura molto affermata e comunemente utilizzata quando si tratta di questi temi è l’indice di Gini, il quale consente di capire qual è il grado della disuguaglianza in un Paese e anche di mappare l’entità del problema nelle diverse aree. L’indice varia tra 0 ed 1, dove 0 indica la totale equi-distribuzione della ricchezza (ovvero la situazione in cui tutti gli individui percepiscono lo stesso reddito), mentre 1 corrisponde alla massima concentrazione della ricchezza (situazione in cui un individuo controlla tutta la ricchezza nazionale).
I dati fin qui riportati mostrano come quella parte di popolazione che versava in condizioni al di sotto del salario minimo prima degli anni 2000 abbia poi aumentato il proprio reddito, cosa che ha permesso a molti di uscire dalla soglia di povertà. Tuttavia è necessario fare riferimento ad un importante fattore: i dati usati dalla Banca Mondiale e dagli istituti di ricerca per mettere in atto queste analisi fanno riferimento alla contabilità nazionale in termini di reddito, consumi privati, risparmi e simili. Se si cambia la fonte dei dati e ci si sposta invece sui bilanci delle famiglie si ottengono esiti diametralmente opposti.
Come riportato dall’indagine svolta dalla Banca D’Italia sui bilanci delle famiglie, «è aumentata la quota di individui a rischio di povertà, definiti come quelli che dispongono di un reddito equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano. L’incidenza di questa condizione, che interessa perlopiù le famiglie giovani, del Mezzogiorno o dei nati all’estero, è salita al 23 per cento, un livello molto elevato».
Situazione non molto dissimile per le famiglie americane. Se è vero che il reddito medio delle famiglie statunitensi è cresciuto del 28% dal 2003, bisogna tenere conto che il costo della vita nello stesso periodo ha registrato un +30%. Inoltre, a fine 2016, l’indebitamento medio della famiglia americana ha superato i valori registrati nel 2008, in pieno periodo post-crisi: ciascun americano risultava mediamente indebitato con la carta di credito per 7.415 dollari, il massimo di sempre. Oggi l’importo è sceso a 5.950 dollari.
Nonostante il Paese sia tornato a crescere a ritmi costantemente positivi, con una disoccupazione che si attesta a circa il 3,6% ed una crescita del PIL nel 2018 del 2,9% – in netta accelerazione rispetto al 2016 (1,5%) e al 2017 (2,4%) – che pareggia il 2015, le famiglie americane risultano tra le più indebitate del mondo. A dimostrazione di ciò, con riferimento all’indebitamento medio dell’individuo precedentemente illustrato, se si rapporta il debito ai soli americani con carte di credito in rosso l’importo medio sale a 16.061 dollari, non molto lontano dall’apice di 16.912 dollari del 2008.
Tutto questo fa presagire un’epoca nella quale il capitalismo sta forse perdendo il suo appeal come paradigma unico, riconosciuto e da seguire. Cosa ci riserverà il futuro? Il capitalismo è entrato realmente in crisi o si tratta esclusivamente di un periodo di sfiducia destinato a terminare?
https://startingfinance.com/la-disuguaglianza-in-italia/