L’amministrazione di Donald Trump è senza dubbio partita come una tra le più controverse e divisive che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. A un anno e mezzo dal termine del primo mandato del tycoon newyorkese, però, è arrivato il momento di fare i primi bilanci e valutare i risultati. Se ci si limita alla sfera economica, ciò che emerge in maniera abbastanza chiara sono dei numeri che, periodo dopo periodo, si sono confermati solidi e importanti: la disoccupazione è scesa al di sotto del 4% e ha raggiunto il livello minimo dal 1969, la crescita economica statunitense, che prosegue sostenuta ormai da diversi anni, si è ulteriormente rafforzata rispetto all’era Obama e gli indici finanziari di Wall Street sono tornati sui massimi storici. Insomma, la crisi economica del 2008 sembra ormai un lontanissimo ricordo.
Nel primo trimestre 2019 la crescita economica statunitense ha superato le attese di tutti gli analisti attestandosi a un +3,2%, rispetto al +2,5% stimato dai principali esperti internazionali e al +2,2% del trimestre precedente. Ma questi dati si confermeranno nel lungo periodo? Per comprendere meglio cosa sta accadendo negli USA è necessario approfondire e spacchettare i risultati economici dell’era Trump.
Il traguardo di Trump
Appena usciti i numeri sulla crescita economica del primo trimestre 2019, il miliardario Presidente non si è lasciato sfuggire l’occasione per esaltare la sua America great again e non ha lesinato trionfali aggettivi, twittando: «Stiamo andando benissimo. Il Pil è incredibile. Non solo. Abbiamo una crescita fantastica e anche un’inflazione molto, molto bassa. L’economia va benissimo. Siamo i numeri uno al mondo». In effetti è difficile dargli torto, se si considera che per trovare un trimestre in cui la crescita economica statunitense si attestava a questi livelli bisogna tornare indietro al 2015. Storicamente negli USA il primo trimestre dell’anno è quello che va peggio; i primi tre mesi del 2019 erano stati caratterizzati dal più lungo shutdown della storia (ovvero il blocco di tutte le spese del governo federale a causa del mancato accordo sul bilancio nel Congresso a maggioranza democratica).
L’obiettivo dell’amministrazione Trump in vista delle elezioni presidenziali del 2020 è quello di mantenere un ritmo di crescita del 3% medio nell’arco dei primi 4 anni di mandato. Per ora ciò sembra essere a portata di mano, visto il +3,1% di crescita messo a segno nel 2017 e il +2,9% del 2018. Le previsioni ufficiali riportate nero su bianco dal Governo federale nell’ultimo bilancio approvato contano su una continuazione di questo trend. Infatti il Dipartimento del Tesoro americano prevede l’arrivo dei “Roaring Twenties” anche nel ventunesimo secolo, con la crescita USA che dovrebbe raggiungere il 3,2% nel 2019, il 3,1% nel 2020 e il 3% dal 2021 al 2024, ultimo anno in cui Trump potrebbe rimanere alla Casa Bianca.
Taglio delle tasse e tassi di interesse
La politica economica finora seguita dall’amministrazione ha soffiato su una crescita già sostenuta. Nonostante, infatti, i dati economici ereditati dall’era Obama fossero già ottimi, nel corso dello scorso anno Trump ha varato il più importante taglio delle tasse della storia americana, dal valore di quasi 100 miliardi, con l’obiettivo di spingere ulteriormente la crescita economica statunitense e invogliare le grandi aziende a investire nel Paese. Tale manovra è stata realizzata quasi per intero senza coperture e questo ha portato il deficit federale a schizzare a livelli molto elevati (+ 17% in un anno). In sostanza, The Donald ha deciso di andare apertamente contro le teorie degli economisti più affermati a livello internazionale, che raccomandano di approfittare dei momenti di crescita per rafforzare i fondamentali dell’economia, riducendo il deficit e il debito e lasciandosi così un buon margine d’intervento per la realizzazione di una manovra anti-ciclica quando le cose dovessero peggiorare.
Queste teorie economiche, invece, erano state seguite finora dalla FED, che aveva progressivamente innalzato i tassi di interesse fino al 2,25-2,5% raggiunto nell’ultimo trimestre 2018. Anch’essa però, dopo le invettive del Presidente USA, che la accusava di non fare gli interessi degli americani, e l’incertezza che aleggiava sull’economia mondiale nell’ultima parte del 2018, ha deciso di rivedere i propri piani per il 2019, mantenendo i tassi invariati; decisione che potrebbe essere confermata nei prossimi mesi, visto il basso tasso d’inflazione registrato nel nuovo anno (+1,3%, rispetto al target della Banca centrale americana del +2%).
L’innalzamento dei tassi era infatti finalizzato perlopiù a contenere l’inflazione, che caratterizza i periodi di crescita economica e di rafforzamento della domanda. Ecco perché Trump nel suo tweet ha festeggiato come un grande risultato anche il dato sull’inflazione molto bassa. L’ultimo argine di contenimento ad un boom economico incontrollato, rappresentato dal potere di intervento della FED sui tassi d’interesse in caso di forte incremento dei prezzi, sembra essere stato superato. Il rischio inflazione appare lontano e le stime dell’amministrazione Trump non lasciano spazio al pessimismo: il dato sulla crescita economica statunitense raggiunto nel primo trimestre dovrebbe essere bissato e consolidato senza troppi problemi anche nei trimestri successivi.
La crescita economica statunitense è reale?
Ma tale ottimismo è giustificato? L’economia USA gode di una salute di ferro? Andando ad analizzare nel dettaglio i numeri sopra riportati, emerge che i due terzi di quel +3,2% di crescita sono dati da tre fattori: incremento delle scorte, incremento della spesa pubblica locale e federale (nonostante lo shutdown), miglioramento della bilancia commerciale (crescita dell’export e riduzione dell’import).
Il primo valore, l’incremento delle scorte, è molto controverso: esso può significare un aumento della produzione in previsione di un aumento delle vendite, ma anche una riduzione della domanda che fa accumulare le scorte invendute in magazzino. In questo caso, probabilmente le aziende hanno fatto crescere gli stock nei propri magazzini (che sono passati a un valore di $128,4 miliardi dai $96,8 miliardi del trimestre precedente, contribuendo alla crescita del PIL per l’1,7%, il dato più alto dal 2015), in vista di una nuova ondata di dazi, in particolare sui prodotti cinesi. Il valore delle scorte è quindi un dato molto volatile.
Allo stesso tempo si è registrato un incremento delle esportazioni del 3,7% e una riduzione delle importazioni del medesimo valore, effetto nel breve periodo dei dazi e della politica protezionistica dell’amministrazione Trump, che però difficilmente garantirà gli stessi risultati nel lungo periodo, quando anche le contromisure adottate dagli altri Paesi si faranno sentire e soprattutto considerando che ci troviamo in uno scenario complessivo di contrazione dei commerci internazionali, il cui valore è diminuito dell’1,9% nello stesso periodo del 2019.
Infine, sono proprio i dati su consumi e investimenti che dovrebbero preoccupare maggiormente Trump e i suoi collaboratori. I primi, che rappresentano i due terzi della ricchezza americana e che quindi sono imprescindibili per una crescita economica sostenuta anche nel lungo termine, nel primo trimestre 2019 hanno messo a segno solo un +1,3%, il valore più basso dal 2013 e in forte frenata rispetto al +2,6% di fine 2018. Anche la crescita degli investimenti risulta dimezzata rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno e passa dal 5,4% al 2,7%; in particolare, l’acquisto di beni strumentali da parte delle aziende ha raggiunto i minimi dal 2016.
Fattori che lasciano presagire una rapida fine dei benefici sull’economia USA del drastico tagli di tasse alle aziende voluto da Trump. Come abbiamo visto, a spendere sostanzialmente di più nel primo trimestre 2019 sono state solo le amministrazioni locali e il governo federale. In particolare, la componente delle spese governative federali e locali è balzata in alto del 3,9%, riportando il rialzo più forte in tre anni.
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