Il debito pubblico indica l’ammontare del debito contratto da uno Stato per far fronte al proprio fabbisogno di liquidità, è considerato il principale indicatore a cui guardare per capire lo stato di salute finanziaria di un Paese. Esso è dato, in termini tecnici, dalla somma degli avanzi e dei disavanzi pubblici registrati in un determinato periodo. Nel caso in cui la spesa pubblica superi il gettito fiscale ed in assenza di monetizzazione del debito, il governo provvede a finanziare il deficit nel bilancio tramite l’emissione di titoli del debito pubblico, più noti come titoli di Stato. Acquistarli è come dare dei soldi in prestito al relativo Paese, quindi chi ne possiede ha il diritto di riavere indietro con gli interessi il denaro impiegato entro una data stabilita.
Il debito pubblico italiano
Il debito pubblico italiano è da diversi anni oggetto di accese polemiche a causa della sua elevata entità rispetto al PIL nazionale. Secondo il Trattato di Maastricht, infatti, il debito pubblico deve restare inferiore al 60% del PIL. Al termine del 2019 il debito italiano si attestava su 2.409.841 euro, pari al 134,8% del PIL. In Europa registra un valore peggiore solo la Grecia (176,6%).
Italia e Giappone a confronto: il problema della composizione del debito
In Italia l’opinione pubblica e, in molti casi, la politica tendono spesso a minimizzare il problema del debito. Nel farlo si utilizza di frequente l’esempio del Giappone. Il debito pubblico nipponico, infatti, a fine 2019 equivaleva al 236,6% del PIL, un valore che a prima vista appare molto peggiore di quello italiano. Nonostante ciò, il Paese dell’estremo oriente non ha difficoltà dal punto di vista finanziario. Questo perché, in realtà, il solo dato del rapporto debito/PIL preso da solo trae in inganno. Per capire davvero la situazione del debito, si deve guardare anche alla sua composizione, che in Italia è molto diversa rispetto a quella del Giappone. Infatti, nel caso nipponico, solo il 12,8% dell’intero ammontare è in mani straniere, mentre la porzione principale è detenuta dalla Bank of Japan (44,5%), della quale proprio il governo giapponese è azionista di maggioranza, con il 55%.
Secondo i dati di Banca d’Italia del 2019, invece, circa un terzo del debito pubblico italiano è detenuto da non residenti (31,5 % – €759,6 miliardi). Il resto, invece, è diviso tra Banca d’Italia (16,7% – 403,308 miliardi), Istituzioni Finanziarie Monetarie residenti (26,5 % – 638,7 miliardi), altre istituzioni finanziarie residenti (19,4 % – 467,8 miliardi) ed altri residenti (5,8% – 140,4 miliardi). In questo quadro la partecipazione diretta del governo italiano è di fatto minima, visto che spesso gli stessi enti finanziari istituzionali della Penisola sono per la gran parte in mano a privati. Ad esempio, considerando la più importante, il maggiore azionista di Banca d’Italia è Intesa Sanpaolo, seguito al secondo posto da Unicredit.
Oltre a questo, un altro elemento chiave ma troppo complesso da analizzare in breve è l’efficienza della spesa pubblica, che dipende dalla capacità o meno da parte degli enti pubblici di fare i giusti investimenti.
Gli investitori privati ed i titoli italiani
Nel XXI secolo la quota di debito pubblico italiano detenuta dai privati si è ridotta in modo netto, a causa degli interessi sempre più bassi offerti dai relativi titoli di Stato. A tal proposito, come sostenuto dal CEO di Intesa San Paolo, Carlo Messina, offrendo rendimenti competitivi, sgravi fiscali ed uno scudo penale per coloro che trasferiscono capitali dall’estero, si potrebbe portare dal 5 al 10-20% la quota di debito pubblico controllata dal risparmio privato italiano. Ciò consentirebbe di minimizzare l’esposizione a potenziali e frequenti negoziazioni, riducendo così la volatilità nel mercato.