I nuovi consumatori, i Millenials, non sembrano più apprezzare il Retail, la vendita al dettaglio indirizzata al consumatore finale: la generazione nata durante la rivoluzione digitale e la più grande crisi economica dalla Depressione degli anni ’30 è infatti più avvezza a comprare online e low cost. Questo compromette inevitabilmente la vita dei negozi fisici, grandi o piccoli, presenti nei centri commerciali. Mentre negli Stati Uniti l’afflusso del pubblico nei grandi agglomerati commerciali è diminuito del 50% dal 2010 al 2013, nel nostro Paese sono soprattutto i piccoli negozi a risentire della crisi. Al primo posto fra le categorie più colpite ci sono i negozi di abbigliamento: il numero delle boutique si è ridotto di quasi il 20% a causa dell’avanzamento delle grandi catene di fast fashion.
La crisi dei grandi marchi
Non sono soltanto i piccoli commercianti a risentire del successo di questo nuovo modello di business. A gennaio 2017 la proprietà intellettuale di American Apparel è stata venduta ad un’azienda di abbigliamento canadese, Gildan, per 88 milioni di dollari. L’accordo di vendita però non includeva i negozi del marchio né i 3.500 dipendenti che hanno perso il lavoro. A quanto pare la mission del fondatore Dov Charney, consistente nel contrastare lo sfruttamento della manodopera nell’industria tessile offrendo salari dignitosi ai suoi dipendenti e benefici come l’assicurazione sanitaria, non è bastata a salvare l’azienda da una forte crisi dovuta a costi di produzione sempre più alti, legati anche alla “colpa” di non volerla trasferire in paesi in via di sviluppo, come hanno fatto i suoi concorrenti.
Anche Abercrombie & Fitch ha subito negli ultimi anni un forte calo dei ricavi, tanto da chiudere il bilancio del 2016 con una perdita netta di oltre 13 milioni di dollari. Tuttavia, per risollevarsi, sta tentando una strategia di rebranding allo scopo di riposizionarsi sul mercato.
I casi sopracitati sono solo due esempi di una lista ben più lunga: il mercato si evolve in fretta e chi non riesce a stargli dietro chiude i battenti.
Il fast fashion tra luci ed ombre
Il successo del fast fashion è dovuto alla capacità di soddisfare tutte le esigenze dei nuovi consumatori, a partire da un online store ben fornito che cura i servizi pre e post vendita, il cosiddetto “modello Amazon”. Altro punto a favore di brand quali H&M, Zara o Primark è un prezzo estremamente competitivo che incontra la tendenza dei Millenials a spendere sempre meno in abbigliamento, preferendo investire in elettronica o altri servizi. Ma il più importante vantaggio di questo modello di business è, come suggerisce il nome stesso, la velocità. Velocità nella progettazione, velocità nella produzione e nella fornitura, velocità nel ricambio del prodotto. La riduzione dei tempi, combinata con la tecnica del postponement, che consiste nell’ultimare il prodotto subito prima di distribuirlo nei punti vendita, consente di fronteggiare la continua variazione della domanda. I gusti delle nuove generazioni sono imprevedibili e mutevoli e per gestirli serve una supply chain adeguata.
Da un’analisi superficiale sembra quasi un modello perfetto, che merita il suo successo grazie alla capacità di rispondere rapidamente alle esigenze del mercato. Quello che non vediamo in questi grandi negozi sempre affollati sono le pessime condizioni dei lavoratori nelle fabbriche che forniscono gli abiti. Per assicurare prezzi così bassi le aziende hanno trasferito il processo produttivo in paesi poverissimi come il Bangladesh, il Pakistan o l’Indonesia, dove la manodopera è disposta a lavorare 10 ore al giorno, per un salario di pochi centesimi di dollaro, in pessime condizioni di sicurezza. Fra i numerosi incidenti che si sono verificati a causa della scarsa prevenzione nelle fabbriche il più noto è il tragico crollo del Rana Plaza a Dacca, in cui morirono 1.138 persone che erano stipate nell’edificio a cucire abiti.
Prendi una produzione a costi molto bassi, prendi un’abile strategia di marketing che spinge a consumare sempre di più per crearsi un’identità attraverso gli abiti e la globalizzazione fa il resto, accorciando spazi e tempi sul mercato. Solo una scelta etica potrà decretare la fine del fast fashion.
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