Trattandosi di un concetto controverso, molte sono le interpretazioni proposte di “giustizia ambientale”.
Una delle più diffuse e onnicomprensive la riconduce all’attribuzione, agli abitanti di un determinato luogo, della facoltà di condizionare le scelte che riguardano l’ambiente in cui loro stessi vivono, ponendo così l’accento sul diritto degli abitanti di poter incidere sui processi costitutivi della vita associativa.
Stiamo parlando del diritto delle persone di accedere – a prescindere da etnia, sesso, nazionalità, religione e reddito – all’utilizzo delle risorse ambientali necessarie alla crescita e allo sviluppo delle comunità, di vivere in un ambiente salubre, in un ecosistema equilibrato, ma anche di decidere, senza il dominio di ingerenze esterne, come trasformare lo stesso ambiente o come tutelarlo, di stabilire la qualità e quantità dei beni e servizi offerti.
La giustizia ambientale si riferisce, quindi, a quell’insieme di regole, valori, norme culturali, processi decisionali e politiche attraverso cui si strutturano “comunità sostenibili” dal punto di vista ambientale, ma anche e soprattutto in termini economici, sociali e politici.
La giustizia ambientale è la risposta delle comunità locali e dei movimenti sociali alla pressione globale – ma esercitata localmente – da industrie e attività economiche, nonché alle disuguaglianze, agli squilibri del commercio mondiale e ai deficit di democrazia a livello locale.
Giustizia ambientale e giustizia sociale
Lo scorso dicembre a Barcellona, in occasione della Conferenza ONU sui cambiamenti climatici, la giovane attivista svedese Greta Thunberg affermava come
”la giustizia ambientale è legata alla giustizia sociale”
un concetto semplice quanto centrale. Studiosi come Agyeman, Bullard e Evans hanno più volte sottolineato l’importanza della consapevolezza di come le problematiche ecologiche debbano essere comprese ed affrontate nel contesto più vasto dei rapporti sociali, di produzione e distribuzione vigenti.
È necessario, quindi, confrontare la letteratura sullo sviluppo sostenibile con quella sull’ambientalismo. Quest’ultimo, fanno notare, troppe volte ha proposto teorizzazioni che non si raffrontano adeguatamente con i concetti di crescita economica, equità economica, libertà di impresa, sicurezza e giustizia sociale.
Il punto focale sta nel comprendere come le politiche ambientali e la nascente “etica” ambientalista debbano avere come soggetto di tutela e salvaguardia non tanto la natura, bensì il rapporto uomo-natura. La giustizia ambientale è funzionale alla giustizia sociale, ossia alla tutela e alla salvaguardia dell’uomo e delle sue possibilità di crescita e prosperità economica, sociale e culturale, a livello individuale e comunitario: il focus e il soggetto di diritto delle politiche deve essere l’uomo.
Del resto, la politica – perciò anche la politica ambientale – può, e deve, essere intesa come un processo umano costituito da pratiche istituzionali e sociali collocate storicamente e geograficamente al fine di perseguire un’utilità pubblica collettivamente determinata.
Lo sviluppo capitalistico, l’avversario dichiarato della giustizia ambientale, ravvisa e manifesta una chiara utilità pubblica. I problemi che sorgono nella prassi sono innumerevoli, e impossibili da elencare, ma alla base vi è sempre il tentativo, spesso di successo, di interessi privati o particolari di sopraffare gli interessi pubblici e comuni, generando squilibri sociali e disuguaglianze economiche sempre più radicate.
Ma nel discorso sullo sviluppo e sull’ambiente – nonché sulle disuguaglianze e sulle povertà globali e locali – il dilemma pregnante è ancora di natura ideologica: è evidente come il problema non è quale ricetta o strategia sia più o meno efficace per favorire lo sviluppo, bensì quale sviluppo si vuole favorire, quale esiti si desiderano, quale visione dell’uomo e della natura si vuol far trionfare.
La natura può essere un soggetto di diritto?
La difficoltà incontrata nella tutela dei diritti collettivi legati all’ambiente ha stimolato la sperimentazione di nuove forme di lotta che vedono protagonisti movimenti, organizzazione e Stati che utilizzano i tradizionali strumenti del diritto in maniera innovativa.
I tentativi più radicali provengono da alcuni paesi del Sud America, come Ecuador e Bolivia, che, rispettivamente nel 2008 e 2009, hanno innalzato l’ambiente a soggetto di diritto, titolare di situazione giuridiche, ovvero portatore legittimo di istanze di tutela verso gli interessi che sono Stati riconosciuti come suoi all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale.
L’iniziativa, che apre una nuova pagina della storia del diritto e nuovi ambiti di ricerca, è un grande scacco a quelle visioni ideologiche che ancora propongono una qualche forma di antropocentrismo. Tuttavia, per percorrere ancora questa direttrice sarà richiesto un grande sforzo teorico e pratico di costruzione di un nuovo sapere collettivo giurisprudenziale.
Conflitto fra interessi economici e diritti umani naturali
Nel discorso sulla giustizia ambientale è impossibile non menzionare le istituzioni, ossia l’insieme di meccanismi e strutture formali e informali che svolgono un ruolo strategico nell’esecuzione di piani politici e nella tutela di istanze giuridiche: il loro obiettivo, in vista del raggiungimento della giustizia, è quello di individuare il giusto bilanciamento tra l’interesse e il diritto dei singoli a una vita salubre e di qualità e quello generale alla prosecuzione della produzione e dello sviluppo, cioè fra i diritti umani naturali e i diritti ed interessi economici.
Ma, anche qui, sorgono ostacoli. In primo luogo, il “giusto” è direttamente dipendente dalla struttura economica, ideologica e culturale con cui le istituzioni indirizzano il proprio agire, il quale può far pendere la priorità da un lato piuttosto che dall’altro (diritti umani o sviluppo capitalistico?). In secondo luogo, risulta difficile, di fronte ad un fenomeno di inquinamento o alterazione ambientale localmente o globalmente analizzato, individuare le responsabilità assolute o proporzionali dei vari agenti economici e politici, nonché misurare e vagliare le ricadute spaziali e temporali, i costi per le varie comunità.
Ed infine, chi ha l’onere e le capacità per affrontare un tale problema, di stabilire e far rispettare attraverso pene e incentivi questi diritti? Gli ultimi trenta anni hanno dimostrato come gli Stati nazionali, e di conseguenza tutte le politiche nazionaliste e sovraniste, non sono in grado di misurarsi efficacemente con una tale questione, per il semplice fatto che non è solamente nazionale.