« Voi non andrete via a mani vuote. Ogni donna chiederà alla sua vicina… degli oggetti d’oro e delle vesti. Voi ne ricoprirete le vostre figlie e i vostri figli.»
Così Yahweh, nell’Antico Testamento, cercava di dare un consiglio prezioso a Mosè; allo stesso modo oggi consulenti e money manager raccomandano uno strong buy sull’oro, quasi ad ergersi a Sacro Graal della finanza moderna. In una società ormai frastornata dalla digitalizzazione dei pagamenti e dall’ascesa delle criptovalute, l’oro mantiene sempre un posto d’onore. Come sentenziò Gerald Loeb, leggendario fondatore della società d’investimenti Hutton di Wall Street, «il desiderio d’oro è l’istinto commerciale più diffuso e profondamente radicato nella razza umana». Famoso per la sua malleabilità e per le sue importanti proprietà chimico-fisiche (è il terzo miglior conduttore dopo rame e argento) fin dall’antichità, l’aurum rappresenta infatti il bene rifugio per antonomasia nei mercati finanziari.
Ma chi fissa e determina i prezzi dell’oro?
Il prezzo dell’oro è stato fissato (si parla di fixing) dal 1919 al 2014 sulla Borsa di Londra alle ore 10.30 e 15.00 dal cosiddetto Club of Five, il gruppo dei cinque mercanti più rilevanti del mondo per lo scambio di tale metallo. Da novembre 2014, il processo di fixing è stato invece affidato a Ice Benchmark Administration (Iba) che ha superato la concorrenza del London Metal Exchange e del duo Cme Group-Thomson Reuters.
Molto più difficile è individuare i principali driver di prezzo della preziosa materia prima. Come affermò in tono critico il celeberrimo oracolo di Omaha, Warren Buffett: «Non ho idea di dove finirà l’oro a una certa data, ma la sola cosa che posso dire è che, da adesso a quella data, il lingotto non farà nulla, eccetto che guardare in faccia chi l’ha comprato». Il riferimento è correlato al concetto economico di reddito. Infatti l’oro, contrariamente alle securities e ai depositi bancari, non genera in nessun caso reddito lungo la sua vita da investimento. Si comporta perciò come la moneta nella teoria macroeconomica classica, non percependo alcun interesse.
Altro fattore da considerare è sicuramente la volatilità: in 20 anni le sue quotazioni si sono quasi quadruplicate, passando da 343 dollari per oncia ai 1250 attuali, un livello che è il 2% in meno del 1274,50 che aveva l’8 novembre scorso, giorno dell’elezione di Trump. Dal picco toccato il 6 settembre 2011, quando il future sull’oro era arrivato a 1.923,70 dollari per oncia, il metallo giallo ha dunque perso più del 30%, mettendo alle strette la popolare convinzione che comunque vada “l’oro sale sempre”. Questa eredità deriva sicuramente dall’orizzonte temporale e dal periodo di partenza dell’analisi: chiunque avesse comprato oro 20 anni fa, nel 1997, avrebbe moltiplicato l’investimento per 3,6 volte, mentre entrando 6 anni fa oggi avrebbe perso più di un terzo. Puntando su un ETF legato allo S&P500, la crescita sarebbe invece stata molto meno accidentata: l’indice delle maggiori azioni USA è passato da quota 766 nel 1997 a 1282 nel 2011 per arrivare oggi a circa 2500, tre volte il valore di 20 anni fa.
Le variabili in gioco
Analizziamo le principali variabili che determinano il prezzo della materia prima e la loro correlazione storica con esso.
- Inflazione. Leggendo molte riviste specializzate è possibile evidenziare come l’oro sia ritenuto correlato positivamente all’inflazione. Il motto “no inflazione no uptrend oro” viene però smascherato dalla statistica: negli ultimi 45 anni, i prezzi dell’oro e quelli dello US CPI (Consumer Price Index) hanno mostrato una correlazione media a 12 mesi vicina al livello zero (che indica assoluta decorrelazione), negando categoricamente questo pilastro.
- Tassi d’interesse. A livello macroeconomico la ratio sembra sicuramente sensata. Considerando che l’oro non genera reddito e che un aumento dei tassi d’interesse aumenta il costo opportunità di detenere oro, una politica interventista da parte delle Banche centrali dovrebbe fare diminuire il prezzo. Ma dal 1969 ad oggi solo nella metà dei casi l’oro ha seguito la direzione dei tassi.
- Mercato azionario (specialmente S&P500). Essendo considerato bene rifugio, l’oro per definizione dovrebbe garantire un trend rialzista in momenti di selloff sui mercati azionari. La scoperta statistica è qui sicuramente straordinaria: negli ultimi 45 anni la correlazione media a 12 mesi con il fondamentale indice S&P500 è vicina allo zero, fornendo così un’asset class idonea alla creazione di un portafoglio perfettamente diversificato.
- Geopolitica. Nel secolo scorso l’oro ha raggiunto picchi improvvisi (spike) nei momenti di massima tensione internazionale. Nel 1980 raggiunse il picco degli 850$ all’oncia a seguito dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Parimenti si comportò nel 2011 con il picco a 1920$/oncia a seguito della primavera araba e della spinosa questione greca nell’Eurozona.
- USD. Questa correlazione deriva sicuramente dalla natura insita nella sua negoziazione. Come la maggior parte delle risorse naturali, il prezzo dell’oro è quotato in dollari e conseguente influenzato dalle sue fluttuazioni. Nel 60% dei casi il dollaro debole ha rappresentato un forte uptrend per il metallo. Ovviamente è possibile analizzare importanti divergenze recenti: pur avendo il Dollar Index perso quasi l’8% dai livelli di novembre 2016, il prezzo dell’oro è rimasto in segno negativo (-2%).
E’ quindi sempre di fondamentale importanza valutare e verificare la validità dei modelli proposti dall’economia classica e dalle teorie storiche per calarle nel più variegato contesto economico attuale.