Come fu analizzato dall’economista scozzese A.Smith, il capitalismo, in generale, si fonda sul libero mercato, ovvero sul principio di domanda e offerta senza forti influenze da parte dello Stato. Secondo il pensiero di J. Schumpeter, un economista austriaco naturalizzato americano, questa forma di capitalismo è stata resa possibile dai progressi della tecnica in ogni settore, ai quali è legata la sua stessa evoluzione. In effetti il sistema capitalista, fin dalle origini, è stato caratterizzato dal susseguirsi di paradigmi tecnico-scientifici che lo hanno reso realizzabile. Grazie a questa serie continua di innovamenti, divenne possibile, per una singola azienda, arrivare a produrre beni in massa, in quella che oggi chiamiamo produzione industriale. La storia ci fornisce un vasto numero di esempi di periodi in cui progressi nella tecnica hanno influenzato il mercato e il modo di fare economia:
-la meccanizzazione dell’industria tessile nella prima rivoluzione industriale inglese;
-l’avvento della macchina a vapore e delle ferrovie;
-l’età dell’elettricità e dell’acciaio nella prima metà del 20° secolo;
-il fordismo nella produzione di massa del dopoguerra;
-l’emergere delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della robotica, la quale va a sostituire il lavoro salariato.
Quest’ultima innovazione è quella che ha scandito il passaggio dal settore secondario, della produzione, al settore terziario, dei servizi. Nella loro accurata analisi storica, F. Braudel, storico francese, e G. Arrighi, economista e sociologo italiano, dividono il sistema capitalista, nelle sue evoluzioni, in tre fasi storiche. Come osserva Schumpeter, si tratta di fasi strettamente legate ai progressi della tecnica. Nella prima fase, il nuovo sistema continuava ad essere subordinato al mercato nazionale. Le aziende erano ancora legate, in modo stretto, alla produzione materiale. La grande differenza rispetto al passato è l’affermarsi del valore della proprietà privata, grazie alla quale gli intraprendenti imprenditori borghesi cominciarono a prendere definitivamente il posto della vecchia aristocrazia. Infatti, nonostante il mercato fosse ancora dipendente dallo Stato, ciò che contava ora erano i capitali a disposizione e l’intelligenza nell’investirli, non più i privilegi concessi dal governo centrale. Nella seconda fase, gli imprenditori vanno oltre il mercato nazionale e diventano più indipendenti. Il mercato comincia ad assumere scala globale, ma comunque non è ancora del tutto libero ed è, in parte, controllato dagli stati. Basti pensare che, fino al XX secolo, non era insolito che un paese assumesse una politica protezionista. Nella terza fase il mercato assume carattere sovranazionale, gli stati perdono il controllo dell’economia che passa, di fatto, nelle mani delle aziende multinazionali. In questa fase il carattere globale diviene totale.
Nell’economia capitalista globalizzata, i paesi si dividono nelle categorie di centro, dove si concentrano grandi capitali e, di conseguenza, c’è maggiore produttività, ovvero lavoro e benessere; e di periferia. Tuttavia la situazione non è mai stabile per le nazioni, infatti, a partire da J. M. Keynes, si è osservato come il capitalismo tenda a seguire meccanismi ciclici, caratterizzati da periodi di forte crescita e periodi di crisi, che possono causare il rimescolamento fra paesi di centro e di periferia. Questo è proprio quello che sta succedendo negli ultimi tempi con la decadenza dell’Occidente e l’affermarsi di paesi, come la Cina, che prima erano catalogati tra quelli di periferia. Lo stesso Keynes propone dei modelli per salvaguardare la stabilità degli stati di fronte all’andamento del mercato, che non riesce a regolarsi da solo. Nel capitalismo maturo, in pericolo per le crisi economiche sono solo le nazioni; le potenti aziende multinazionali semplicemente si spostano dove c’è più profitto e quindi non sono mai colpite in maniera eccessiva.
Il capitalismo nasce dall’idea che il mercato, secondo i meccanismi studiati da Smith, sia in grado di regolarsi da solo, e quindi debba essere del tutto libero. Alla base sta l’idea che, in un sistema di libero mercato, chiunque abbia l’intraprendenza e l’intelligenza per riuscire ad inserirsi nel mercato possa emergere. In relazione al passato, ovvero all’economia centralizzata ed ai privilegi di nascita della nobiltà, è una posizione modernissima. Tuttavia il mercato, se lasciato totalmente a se stesso, come oggi accade con le multinazionali, è instabile, come hanno osservato economisti del calibro di Keynes; perciò avrebbe bisogno di regole per mantenersi solido. Il capitalismo non si fonda sulla disuguaglianza, non è necessaria la divisione fra centro e periferia, ma le aziende non hanno alcun interesse nel combatterla, anzi, più uno stato resta debole più lo possono avere in loro potere. Inoltre, è possibile osservare come il capitalismo maturo stia ormai tradendo l’idea capitalista stessa. Infatti oggi quasi tutto il capitale, la ricchezza, del mondo è concentrato nelle mani di pochi. Nel capitalismo, se ci si trova in un regime di mercato del tutto libero da vincoli effettivi, più capitale si ha più è facile incrementarlo. Così si sta andando a creare una classe di ricchissimi, anche di nascita, che non perderanno mai il loro capitale, che anzi tende a crescere sempre di più. Così, con le risorse sempre più concentrate nelle mani di pochi, non è più possibile per un uomo intraprendete e sveglio migliorare la sua condizione, diventando imprenditore in un mercato libero. Il mercato difatti non è più libero, è controllato da una piccola oligarchia che lo monopolizza nella sua totalità. Si è dunque andata a creare una nuova nobiltà di privilegiati, ormai la maggior parte per nascita e non per merito passato. Perché il capitalismo sia possibile e non tradisca se stesso, è necessario che ci sia una ridistribuzione delle ricchezze, che non dovrebbero mai finire a concentrarsi così tanto nelle mani di pochi. In questo sistema, però, non è pensabile discutere il potere delle aziende che hanno, appunto, assunto carattere sovranazionale.