La guerra commerciale sino-americana avviata a inizio 2018 dall’amministrazione statunitense non solo sta provocando effetti economici, quali il rallentamento della crescita globale ed un re-indirizzamento dei flussi commerciali, ma sta avendo anche un impatto sui mercati valutari e finanziari. In questo approfondimento si affrontano le conseguenze che la disputa sta avendo appunto sui mercati valutari dei rispettivi Paesi.
Funzionamento delle Banche Centrali e regimi di cambio
Prima di addentrarci nell’analisi, occorre accennare al funzionamento delle Banche Centrali dei due Paesi maggiormente coinvolti: gli Stati Uniti e la Cina. In tema di politica monetaria esse operano secondo criteri simili: negli USA la Federal Reserve (FED) ha il compito di stabilire la politica monetaria nazionale, supervisionare le istituzioni bancarie e mantenere la stabilità del sistema finanziario; in Cina la Banca Popolare Cinese (PBOC) ha il ruolo primario della gestione macroeconomica, a cui si affiancano il controllo dell’offerta di moneta, la gestione del cambio e quella delle riserve valutarie. Entrambe le istituzioni seguono i modelli di autonomia, vigilanza e controllo del sistema bancario.
I due Paesi differiscono invece per i regimi di cambio applicati alle rispettive valute: mentre il dollaro americano si caratterizza per una fluttuazione libera del tasso di cambio, lo yuan cinese, o renminbi, è ancora strettamente controllato dalla Banca Centrale, nonostante la graduale riforma iniziata nel 2005 a seguito della volontà cinese di abbandonare il sistema a cambi fissi e dirigersi verso una valuta più flessibile.
Tale obiettivo è stato raggiunto solo parzialmente, in quanto, seppur oggi la Cina presenti un sistema a cambi variabili, lo yuan rimane comunque ancora strettamente gestito e controllato dalla BOPC. Quest’ultima, sulla base del livello a cui le contrattazioni della valuta hanno chiuso il giorno precedente, fissa ogni mattina il cosiddetto midpoint giornaliero, ovvero il tasso di riferimento dal quale partiranno le contrattazioni per quella seduta. La Banca Centrale Cinese interviene anche per frenare la volatilità: non appena il valore dello yuan esce dalla fascia di oscillazione prevista (±2% rispetto al midpoint), l’istituzione interviene per mezzo di acquisti o vendite per riequilibrare il mercato.
Infine un’ulteriore differenza si sostanzia nella liquidità del mercato valutario cinese, che risulta essere ancora relativamente bassa rispetto a quella di altri Paesi che hanno per legge una valuta a tasso fluttuante.
Gli effetti valutari
Passando agli effetti valutari della guerra commerciale si registra come, dall’introduzione delle prime misure tariffarie, l’andamento del tasso di cambio dollaro/yuan abbia subito diverse oscillazioni. La figura seguente mostra l’evoluzione del tasso a partire da gennaio 2018 e mette in evidenza le fluttuazioni in corrispondenza dei principali eventi della guerra commerciale.
In particolare si nota come ad agosto 2019 la PBOC abbia deprezzato la propria moneta portando il tasso di cambio sopra la soglia di 7 renminbi per un dollaro, oltrepassando un limite rimasto inviolato per più di un decennio. Da un punto di vista teorico, deprezzare una moneta significa renderla meno costosa nei confronti di altre valute, e quindi incrementare la quantità di divisa svalutata necessaria per acquistare un’unità di moneta estera. A seguito della svalutazione i beni esportati divengono meno costosi e aumenta la loro competitività sui mercati internazionali. Allo stesso tempo le importazioni divengono più care, svantaggiando gli importatori di beni intermedi.
La svalutazione cinese ha portato il presidente Trump a parlare di una vera e propria «manipolazione valutaria» e ad invocare l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale; a tale accusa il governatore del dipartimento internazionale della Banca Centrale Cinese ha risposto dichiarando che tale decisione si era resa necessaria per riequilibrare il cambio, alla luce dei fondamentali economici della Cina e dei livelli di domanda e offerta sul mercato.
Per quanto riguarda il prossimo futuro, un ulteriore deprezzamento dello yuan appare poco probabile per due motivi. Il primo è che molte imprese cinesi hanno debiti denominati in dollari americani, e questi diverrebbero più costosi nell’ipotesi di una maggiore svalutazione dell valuta cinese nei confronti del dollaro, creando più svantaggi per la Cina che per gli Stati Uniti. La seconda motivazione è relativa alla correlazione evidenziata dalla teoria economica tra il deprezzamento e l’inflazione, secondo la quale ulteriori deprezzamenti creerebbero tra i cittadini cinesi il timore di una depauperazione del proprio patrimonio, in conseguenza della quale essi potrebbero decidere di spostare all’estero i propri risparmi, provocando una vera e propria fuga di capitali dal Paese.