Se il mercato italiano fosse una mela, tolta la buccia, il resto rappresenterebbe l’impresa familiare.
Dati AIDAF alla mano (Associazione Italiana Delle Aziende Familiari), in Italia, le imprese familiari costituiscono l’85% delle imprese totali (obbligate a depositare il bilancio), in termini occupazionali il 70%. In effetti, il dato è in linea con quello delle principali economie europee (80% per la Francia, 90% per la Germania, 80% per UK), però il contesto italiano si differenzia per due interessanti aspetti:
– Il minor ricorso a manager esterni da parte delle famiglie imprenditoriali;
il 66% delle aziende familiari italiane ha tutto il management composto da componenti della famiglia, dato che scende al 26% in Francia e al 10% in UK;
– La maggiore longevità;
nel 2017 la rivista Philadelphia Family Business ha stilato la classifica delle aziende più longeve al mondo, tra le prime 10 ne troviamo 6 made in Italy e tutte a conduzione familiare.
La tendenza per il “fatto in casa” e l’amore per la tradizione, si sono riflesse ovviamente anche sulla nostra economia. Non stupisce dunque che proprio in Italia, si possano osservare gli esempi più rappresentativi di aziende che con il tempo sono diventate colossi del mercato europeo o mondiale ma che non ne hanno voluto sapere di quotarsi in Borsa. Si pensi alla Ferrero, alla Barilla, alla Granarolo, alla Lavazza, tanto per nominarne qualcuna, tutti grandi gruppi italiani che, vantando fatturati superiori al miliardo, entrerebbero di diritto tra le blue chip di Piazza Affari, ma ne restano alla larga. Se le aziende quotate sono prestanti SUV che potrebbero domare le dune di un deserto ma non possono allontanarsi troppo dal distributore di capitali che alimenta il loro motore, le family company all’italiana ricordano più i pittoreschi ornitotteri di Leonardo da Vinci, che sembrano promettere la libertà del volo solo grazie alla propria forza fisica ma che lasciano qualche dubbio sulla loro effettiva capacità di decollare. Il trade-off è sempre il solito: libertà in cambio di liquidità. Quotarsi in Borsa significa sicuramente raccogliere i capitali necessari ad alimentare la crescita esponenziale richiesta dal mercato moderno ma significa anche perdere la libertà di pianificare alla lunga, nonché dover puntare a risultati scanditi dal trimestre.
Ovviamente non esiste un’unica strada giusta, si potrebbero citare innumerevoli esempi di imprese che sono morte per la loro chiusura all’esterno e altrettante che invece vengono abilmente guidate dalla stessa famiglia da secoli. Quello che però affascina dell’impresa all’italiana è che riassume le caratteristiche classiche del nostro carattere nell’imprenditoria. L’attaccamento alla famiglia, l’amore per il prodotto e per ciò che creiamo e il nostro continuo sguardo al passato hanno dato vita a un modo tutto nostro di vivere il mercato che forse rappresenta il vero made in Italy di cui andiamo tanto fieri. Esempio da citare è la prima azienda per longevità in Italia, la millenaria Pontificia Fonderia Marinelli, fondata nell’anno 1000 ad Agnone produttrice di campane che l’hanno resa nota in tutto il mondo e che continua a essere gestita dalla famiglia Marinelli. Viene da chiedersi se in futuro il modello dell’impresa familiare riuscirà a mantenere il passo con i giganti del mercato in un mondo che sembra accelerare senza limite e dove la necessità di rinnovo e di ricerca richiede ingenti capitali.
Sicuramente la sfida non è facile ma, se nei prossimi secoli esisterà un’azienda che occuperà le prime posizioni nel suo mercato guidata dalla famiglia che l’ha fondata, forse non è da pazzi scommettere che sarà un’azienda gestita da una famiglia del Bel Paese.
Marco D’Andrea