C’è una zona del mondo continuamente vessata dalle guerre e dai conflitti religiosi, dall’instabilità politica e dagli interessi economici divergenti di varie potenze economiche globali: il Medio Oriente. All’interno di quell’area, tuttavia, c’è un Paese che, nonostante le difficoltà del contesto geopolitico nel quale si colloca, negli ultimi 5 anni ha fatto registrare una crescita economica media del 3% annuo: si tratta di Israele. La galoppata economica – che ha fatto ridurre il tasso di disoccupazione al 4%, un valore universalmente riconosciuto come strutturale e dunque non eliminabile – soffia il vento in poppa al premier Netanyahu in vista delle elezioni della prossima primavera.
Il principale fattore che ha determinato questi risultati strabilianti è stato lo sviluppo del settore hi-tech, che impiega l’8% della forza lavoro, genera il 13% del PIL e il 50% delle esportazioni e che ha fatto di Israele la “Startup Nation” per antonomasia. Il Paese vanta infatti il più alto numero di startup pro capite, una ogni 290 abitanti, per un totale di 5890 aziende. Altri numeri eloquenti: la spesa israeliana in ricerca e sviluppo è pari al 4,1% del PIL (contro l’1,3% italiano), i laureati israeliani rappresentano il 48,8% della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni (contro il 17,5% dell’Italia) e i ricercatori sono 17,4 ogni 1000 abitanti (in Italia appena 4,9).
I settori di punta dell’economia israeliana
I settori dell’economia israeliana che sono cresciuti di più negli ultimi anni grazie alla spinta propulsiva delle startup sono stati il fintech, l’automotive, il lifescience e il cybertech. Il primo è la punta di diamante dell’economia di Tel Aviv. Proprio nella capitale economica di Israele, infatti, Citi e Barclays hanno attivato acceleratori di startup concentrati in particolare sul settore fintech e la stessa banca americana vi ha aperto poi anche un innovation lab, al cui interno lavorano circa 200 ricercatori che si occupano di tutte le principali sfide tecnologiche che coinvolgono il sistema bancario e finanziario, a partire dal tema dell’intelligenza artificiale. Il valore delle transazioni nel mercato fintech è stato pari a 8,9 miliardi di dollari nel 2017 e si prevede un tasso di crescita annuale del 16,1%, con un importo totale di 16,2 miliardi entro il 2021.
La crescita del settore dell’automotive è quella che stupisce di più, dato che in Israele non è presente alcuna casa automobilistica nazionale. I più grandi produttori mondiali di auto sono stati attratti nella nazione ebraica per la presenza di molte startup attive nell’ambito della riduzione della dipendenza dai combustibili fossili, dell’interconnettività (relativa alla comunicazione tra automobili e dispositivi esterni) e della guida intelligente. Il settore del lifescience è in forte sviluppo da almeno un decennio e non sembra destinato a fermarsi: nel 2017 sono stati raccolti 1,2 miliardi di dollari, con una crescita del 40% sull’anno precedente e del 400% rispetto a 10 anni prima. Vengono impiegate in questo ambito oltre 85 mila persone (il 2% della forza lavoro), che lavorano in più di 1350 aziende, fortemente sostenute dalle università e dai fondi governativi.
Il cybertech si è sviluppato per andare incontro alle sempre maggiori necessità di sicurezza informatica nell’ambito di qualsiasi attività, e Israele si è affermato come un’eccellenza in questo campo, con oltre 350 società attive e un export di 3,5 miliardi di dollari (il 5% del valore globale delle esportazioni del settore). Infine, da non dimenticare l’agricoltura: è stata sviluppata proprio in Israele la tecnica di irrigazione a goccia, che ha rappresentato la principale innovazione del settore degli ultimi anni e che permette un notevole risparmio di risorse idriche. Sempre della salvaguardia di queste ultime si occupa GreenIQ, startup israeliana che ha ideato un sistema di irrigazione adattato alle previsioni del tempo, grazie al quale si può aumentare il volume di acqua nelle calde giornate asciutte, ma anche spegnere il sistema quando sta già piovendo.
Gli investimenti in startup israeliane
Mike Butcher, direttore di TechCrunch Europe, ha affermato: «Se lanci un sasso a Tel Aviv, molto probabilmente colpirai un imprenditore tech». Una provocazione che, come abbiamo visto, nasconde una grande verità: solo nel primo semestre del 2018, le startup israeliane hanno attratto 3,2 miliardi di investimenti. Si tratta di un valore impressionante, circa sei volte superiore rispetto agli investimenti in startup italiane, a fronte però di una popolazione di circa 8 milioni di abitanti, un ottavo di quella italiana, e di un’estensione territoriale equivalente a quella della Toscana. Gli investimenti complessivi sono dati sia dalle acquisizioni di startup israeliane fatte dalle grandi multinazionali che da investimenti diretti di aziende che hanno collocato in Israele i propri laboratori di ricerca e sviluppo.
Quest’ultimo caso riguarda il 25% delle più grandi multinazionali (circa 300 aziende). Si tratta di colossi tecnologici come Alibaba, Apple, Google, Amazon, Huawei, Ibm e Renault, che hanno aperto sedi, distaccamenti o laboratori in Israele. Per quanto riguarda la prima tipologia di investimenti, invece, citiamo alcuni esempi: nel 2013 Google ha acquisito Waze, app di navigazione stradale, pagando più di un miliardo di dollari e sempre nello stesso anno Apple ha acquisito, per una cifra che si aggirava intorno a 350 milioni, PrimeSense, startup che ha sviluppato la tecnologia necessaria per il riconoscimento facciale utilizzata nell’iPhone X; a marzo 2017 Intel ha acquisito Mobileye, una startup che ha ideato una delle tecnologie più avanzate al mondo per lo sviluppo dei veicoli a guida autonoma e che è stata valutata 15 miliardi di dollari.
Israele, lo Stato che investe
Il successo delle startup israeliane non è dato dall’improvvisazione o dal caso, ma è frutto di un lavoro di collaborazione tra pubblico e privato iniziato 45 anni fa, con la nascita in seno al Ministero dell’Economia dell’OCS (Office of the Chief Scientist). Si tratta di un’Authority indipendente sostenuta dal Governo ma che opera come se fosse un’azienda privata, con un Ceo e un Board che si occupano di gestire i fondi del Ministero (500 milioni di dollari all’anno) investendo in ricerca e sviluppo. L’ammontare dei singoli investimenti varia a seconda della dimensione, della maturità e della validità del programma presentato dall’azienda. Lo Stato, inoltre, interviene a garanzia degli investimenti effettuati dai privati nelle startup.
Qualsiasi startup israeliana può richiedere di entrare nel programma dell’Authority; a seguito della candidatura, le aziende vengono sottoposte a un’attenta valutazione delle loro potenzialità in termini di ricerca e sviluppo, grazie alla collaborazione con 180 contractor esterni. Al termine di tutte queste analisi ed approfondimenti, il Research Committee approva o rifiuta la candidatura. Infine, possono ricevere finanziamenti pubblici tutte le aziende che sono state accolte nei programmi di un qualsiasi acceleratore di startup israeliano.
Gli investimenti dell’Authority possono arrivare fino all’85% del capitale necessario, ma il resto deve venire dai privati, che sono chiamati a confermare la validità del progetto. In un’ottica di condivisione del rischio con gli imprenditori, se l’azienda ha successo dovrà poi restituire i finanziamenti pubblici ricevuti; se invece fallisce, non deve restituire nulla. Al fine di scoraggiare chi vuole portare all’estero la proprietà intellettuale sviluppata in Israele con i soldi governativi, è stato anche previsto l’obbligo di pagare una salata penale.
I segreti del miracolo
Gli economisti americani Senor e Singer hanno individuato altri elementi chiave per il grande sviluppo delle startup israeliane nel loro libro intitolato Start-Up Nation: The Story of Israel’s Economic Miracle, e si possono notare molte somiglianze con la Silicon Valley (ne abbiamo parlato in questo articolo). Innanzitutto va citata la particolare importanza del settore militare, che ogni anno attira molti investimenti governativi e favorisce così una rapida crescita tecnologica sia in ambito militare che civile. Altro fattore decisivo è rappresentato dall’immigrazione in costante crescita: infatti, Israele ha da sempre incoraggiato l’afflusso di persone appartenenti al popolo ebraico da tutto il mondo e queste, oltre a portare le loro conoscenze ed esperienze, hanno anche una maggiore tendenza a prendere decisioni rischiose, poiché grazie al supporto del Paese non hanno niente da perdere. Decisioni rischiose che sono poi alla base della nascita e della crescita delle aziende più innovative.
Il centro e fulcro nevralgico di questo sviluppo sono stati gli hub di ricerca e innovazione presenti in qualsiasi università israeliana, che permettono ad ogni ricercatore di testare immediatamente le proprie idee e invenzioni, disponendo dei finanziamenti necessari e delle strutture adeguate, perché appositamente adibite a tale scopo. Nel loro libro Senor e Singer affermano anche che i giovani imprenditori israeliani sembrano distinguersi dai colleghi del resto del mondo per la loro capacità di non arrendersi, anche davanti a ostacoli che sembrano insormontabili e a situazioni socio-politiche fortemente sfavorevoli, come i numerosi conflitti avvenuti negli ultimi anni. Un forte senso di sopravvivenza e la coltivazione di una cultura imprenditoriale tra i più giovani hanno dunque portato alla nascita e alla crescita di quella che noi oggi chiamiamo a buon diritto la “nazione delle startup”.
https://startingfinance.com/h-farm-hub-innovativo-italia/