Era il 16 Maggio 1991 quando il Corriere della Sera titolò “Italia Quarta Potenza”, riassumendo le dichiarazioni rilasciate dall’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, nel giorno precedente. L’Italia aveva sorpassato Francia ed Inghilterra nel valore del Prodotto Interno Lordo. Dal 1950 al 1992 il valore assoluto del PIL reale quadruplicò, aumentando in media del 4% annuo. Il boom economico sembrava poter durare per sempre. All’alba degli anni ’90 l’Italia era la quarta economia mondiale e, soprattutto, aveva reso i suoi cittadini tra i più ricchi del mondo. La sostanziosa crescita economica si tradusse in un considerevole sviluppo sociale e delle condizioni di vita di tutta la popolazione.
Livelli record di benessere
L’Italia si affermò soprattutto per l’alto livello di benessere delle famiglie rispetto anche agli altri paesi industrializzati. Il forte stato sociale costruito durante la Prima Repubblica aveva garantito accesso pressoché universale alla sanità, all’istruzione terziaria e ad un sistema pensionistico tra i più generosi al mondo. Nel 1991 il livello dei salari medi percepiti dai lavoratori Italiani era inferiore solo a quello di giapponesi, americani e tedeschi. Gli Italiani si sono oltretutto rivelati tra i più grandi risparmiatori del mondo. Nel 1970 il tasso di risparmio lordo in relazione al PIL superava il 25%.
La fine della crescita
I primi anni novanta furono una fase scioccante per l’Italia. Mentre tutto il sistema politico veniva delegittimato dai processi che coinvolsero tutti i principali partiti, la crescita economica iniziò a rallentare finché la crisi valutaria, la conseguente uscita dallo SME e la forte svalutazione della lira nel 1992 portarono nell’anno successivo il Paese in recessione per la prima volta dopo 19 anni. La ripresa dopo questa decrescita non fu né veloce né marcata. Gli anni ’90 si conclusero in saldo negativo in termini di valore assoluto del PIL. Il 1992 è lo spartiacque di un’Italia che si trasformò da essere una delle economie più floride al mondo a fanalino di coda d’Europa.
Dal 1993 al 2007, periodo in sostanza positivo per il commercio globale, il Prodotto Interno Lordo italiano è aumentato molto meno rispetto alla media dell’Unione Europea. La Doppia Recessione (2008/9 e 2011/3) ha poi fatto precipitare il peso dell’economia italiana rispetto a quella di tutti i principali competitor mondiali in ogni fondamentale e tutt’ora il valore assoluto del PIL è inferiore ai livelli pre-crisi.
Come spesso avviene a seguito durante periodi lunga stagnazione, ad essere colpiti sono stati la ricchezza ed il benessere. La classe media ed i poveri hanno dovuto sopportare gran parte del peso del declino della produttività nel Paese.
La crisi del mercato del lavoro
Mentre dai primi anni ’90 in poi l’economia italiana ha smesso di crescere, nel resto del mondo la competizione si è ampliata.
Dopo la Caduta del Muro di Berlino, nel 1989, la Germania riunificata si rafforzò con estrema rapidità. Il Paese riuscì gradualmente ad ottenere l’egemonia economica e politica all’interno dell’Unione Europea. Con la fine del Comunismo, la Russia e gli altri Paesi ex-URSS si inserirono nella competizione mondiale. Divennero economie di libero mercato, pur mantenendo un costo del lavoro irrisorio rispetto alle economie occidentali. Nel frattempo, la Cina, dall’essere un attore insignificante nel panorama internazionale, iniziò la sua vertiginosa crescita, che la porterà a diventare la più forte potenza mondiale.
Durante questa lunga fase di ampliamento della competizione, il sistema-Italia non è riuscito ad adattarsi ed il mercato del lavoro è quello che ne ha risentito di più.
In termini di numero complessivo di occupati, l’Italia è riuscita a tornare ai livelli pre-crisi solo nel 2018, toccando di nuovo quota 23 milioni. Il dato occupazione avulso, tuttavia, non può spiegare a sufficienza quanto alto è stato il prezzo pagato dai lavoratori italiani. Il funzionamento stesso del mercato del lavoro è cambiato, attraverso profonde riforme come l’eliminazione dell’articolo 18 ed il Jobs Act. La maggior flessibilità del mercato del lavoro è stata un’elemento di aiuto per la ripresa occupazionale, ma ciò non toglie che l’Italia, negli ultimi anni, non sia cresciuta abbastanza per far sì che la qualità dei lavoro tornasse ad essere quella di prima.
Rispetto a dieci anni fa i lavoratori part-time sono aumentati di 800mila unità, il Mezzogiorno ha perso più di 300mila occupati ed il numero di lavoratori sotto i 45 anni è diminuito di 2,9 milioni, mentre i lavoratori autonomi scendono quasi del 10%. Il mercato del lavoro ha quindi colpito quelli che erano già i punti deboli del sistema-Paese: il divario tra Nord e Sud, le condizioni dei giovani, il precariato, ed i conti pubblici.
L’aumento della povertà
L’Italia, a cospetto di una produttività tutt’altro che crescente, ha un costo del lavoro orario superiore alla media Europea e molto vicino a quello di Stati Uniti e Germania.
La causa principale del costo del lavoro elevato in Italia è anzitutto l’elevata tassazione. Il cuneo fiscale è il terzo più alto dei Paesi OCSE, inferiore solo a quelli di Belgio e Germania. I contributi sociali e le imposte versate dai dipendenti e dagli imprenditori italiani nel 2017 erano pari al 47,7% del salario lordo.
La stagnazione dei salari medi, l’aumento dei contratti a termine determinato e part-time, l’aumento della disoccupazione a lungo termine hanno portato, come inevitabile, ad un aumento della povertà.