A molti sarà capitato, viaggiando all’estero, di imbattersi in prodotti e marchi che richiamano il Bel paese e immediatamente rendersi conto che ci si trova davanti ad una pessima imitazione. Mentre noi italiani percepiamo tutto ciò come un oltraggio alla nostra cultura, le persone che invece non hanno tanta dimestichezza con le nostre usanze vengono attirate da questi prodotti. I danni del cosiddetto “Italian sounding” non sono solamente di immagine, in quanto hanno effetti soprattutto economici e distorsivi per la competitività.
Una premessa è doverosa: il fenomeno non sempre è illegale, a causa delle maglie particolarmente larghe delle normative locali.
I numeri dell’Italian sounding
Secondo gli ultimi dati forniti da Assocamerestero (Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero) riguardo l’indagine promossa e finanziata dal Ministero dello Sviluppo Economico, il giro d’affari di questo fenomeno è di circa 90 miliardi di euro, con una crescita del 70% negli ultimi 10 anni. Le imitazioni sono per il 42% piatti pronti e surgelati, conserve e condimenti. Seguono i latticini (25,1%), la pasta (16,1%), i prodotti a base di carne (13,2%) e i prodotti da forno (3,6%).
Sicuramente la leva principale per incentivare l’acquisto è il prezzo. In particolare, i risparmi più consistenti hanno luogo nel Regno Unito (-69%) e in Germania (-68,5%), seguiti dal Belgio (-64,9%) e dall’Olanda (-64,3%); ci si muove su tassi di risparmio più contenuti in Svizzera (-33,9%) e in Lussemburgo (-25%).
Gran parte delle imitazioni Italian sounding proviene dall’altra parte dell’oceano Atlantico, con Stati Uniti e Sud America in testa per quanto riguarda la loro produzione e commercializzazione. Da sottolineare che comunque non c’è angolo del mondo immune da questa pratica, neanche in Unione europea dove chiaramente la normativa comunitaria per i prodotti Dop e Igp è più stringente.
Ci sono diverse altre ragioni, oltre al prezzo apparentemente competitivo, che spingono i numeri di questo fenomeno sempre più in alto. La prima è sicuramente il grande interesse che il resto del mondo nutre verso sapori, ingredienti e qualità del cibo italiano. Tuttavia, questo apprezzamento non va sempre di pari passo con una reale conoscenza dei prodotti, e ciò rende gli acquirenti facili prede per i produttori di tali beni ingannevoli. La seconda ragione è la presenza di connazionali all’estero che decidono di vendere le conoscenze acquisite in Italia alle aziende locali per produrre prodotti talvolta molto simili agli originali. La terza è l’effettiva indisponibilità di prodotti italiani all’estero, oppure la loro vendita ad un prezzo eccessivamente alto.
Cosa cambierà?
Da aprile 2020 verranno applicate le nuove disposizioni europee, le quali obbligheranno i produttori ad indicare in etichetta l’origine della materia prima principale. Tuttavia è ammessa l’omissione se il luogo di origine dell’ingrediente primario è lo stesso del luogo di lavorazione dell’alimento finale (ad esempio, una passata di pomodoro prodotta in Italia con prodotti italiani). Diverse sono le perplessità degli esperti e degli operatori del settore. Per citarne una, molta flessibilità è riconosciuta sulla portata geografica del riferimento all’origine (da “Ue/non Ue” fino all’indicazione del paese o della regione).
In ogni caso, le norme non si applicheranno ai prodotti Dop, Igp e Stg, né a quelli a marchio registrato che, a parole o con segnali grafici, indicano già di per sé la provenienza del prodotto (Fonte: Il Sole 24 Ore). Tuttavia, in questo modo le aziende che hanno un marchio che vagamente richiama il nostro Paese potrebbero bypassare gli obblighi della normativa, ferme restando comunque le disposizioni in materia di marchio ingannevole.
Coldiretti si è già detta contraria e pronta a dar battaglia ad un provvedimento che minerebbe quanto fatto dall’Italia negli ultimi anni per salvaguardare uno dei suoi comparti più importanti. Infatti, ad oggi le normative italiane stabiliscono per pasta, riso, latte e prodotti derivanti dal pomodoro l’obbligatorietà, in qualsiasi caso, di indicare la provenienza della materia prima principale, prescindendo se siano presenti elementi che richiamano l’italianità.
Non c’è dubbio che la lotta alla contraffazione, sia essa nel settore agroalimentare che in altri comparti, non è un affare che l’Italia può affrontare da sola. Per questo la cooperazione internazionale e l’integrazione con le nuove tecnologie risulteranno fondamentali. Come esempio va citata l’app Authentico, la quale permette di capire tramite l’identificazione del codice a barre se il prodotto che si ha davanti è realmente italiano.