Una delle principali demarcazioni ideologiche tra la destra e la sinistra politiche si riscontra nelle diverse posizioni riguardo l’intervento statale in economia. Sebbene i governi di entrambi gli orientamenti si riservino una certa gamma di mansioni economiche e si tratti dunque di due diverse tendenze, più che di una distinzione categorica, le due politiche economiche si rifanno comunque ad ispirazioni teoriche differenti.
La ragione di governo conservatrice affonda infatti le proprie radici dottrinali negli albori della stessa scienza economica, facendo risalire le logiche di non-intervento al liberismo di Adam Smith, per vederle evolvere nella scuola marginalista fino al neoliberismo anglosassone. Per quanto concerne invece la tradizione politica di sinistra un ovvio punto di riferimento è rappresentato dal socialismo di Marx; trattandosi tuttavia di un modello economico assolutamente alternativo rispetto a quello vigente, per capire le ragioni interventiste attuali occorre analizzare piuttosto un’ispirazione ideologica interna al sistema capitalistico: la rivoluzione keynesiana.
La rivoluzione di Keynes
Fin dai primi passi mossi come economista di rilievo, ciò che contraddistinse John Maynard Keynes fu un’attenzione inedita alla concretezza dei fenomeni economici; si trattava di qualcosa di fondamentalmente assente nei suoi contemporanei, che per difendere le virtù del libero mercato si trinceravano dietro la coerenza matematica del marginalismo.
Già in The Economic Consequences of the Peace Keynes osservò infatti come le condizioni di pace imposte agli sconfitti ne avessero inficiato la capacità stessa di pagare le riparazioni di guerra: i fenomeni economici venivano dunque problematizzati come effetti di scelte politiche, e non ridotti a dati da incasellare in uno schema analitico. Quando egli dunque rivolse il suo sguardo pragmatista verso la disoccupazione inglese degli anni ’20, ne risultò un’intuizione specifica: in recessione esistono equilibri di disoccupazione non necessaria, che smentiscono l’equilibrio del libero mercato e possono essere evitati tramite l’intervento attivo dello Stato. In questa intuizione è già racchiusa tutta la rivoluzione keynesiana; il corpus di ragionamenti analitici successivi ebbe solo la funzione di fondarla.
Il primo passo in questa direzione risale al Trattato sulla Moneta, dato alle stampe nel 1930. Uno dei temi centrali del testo era la separazione categorica tra risparmi ed investimenti, un argomento rivoluzionario che l’autore sperava aggiungesse una dimensione nuova alla comprensione dell’economia. Stando al liberismo marginalista, gli investimenti dipendevano infatti direttamente dall’offerta di risparmi: si trattava dunque di due elementi presenti nel sistema in una specifica proporzione, che tendeva automaticamente a riequilibrarsi anche quando contaminata da inevitabili anomalie nei tassi d’interesse. Se ad esempio un tasso innaturalmente basso determinava troppi investimenti rispetto ai risparmi, la carenza di questi ultimi non avrebbe assorbito il prodotto dei primi, frenandoli in un secondo momento e assicurando così l’equilibrio del libero mercato.
Keynes evidenziò tuttavia come risparmi ed investimenti rispondano in realtà alle logiche di due gruppi differenti: da una parte le famiglie, la cui propensione al risparmio dipende dal reddito, e dall’altra gli imprenditori, i cui investimenti dipendono dai tassi variabili di interesse bancari. Inoltre gli investimenti derivati dai tassi di interesse non devono necessariamente riequilibrarsi con i risparmi, in quanto i banchieri non sembrano decidere quei tassi in funzione dei risparmi nei loro forzieri, ma secondo criteri specifici come il rapporto tra riserve di contante e passività. A rigor di logica risulta dunque possibile, ad esempio, che i banchieri permettano meno investimenti (e dunque occupazione) di quanto possano in realtà sostenere i risparmi.
Quello marginalista sembrò dunque svelarsi come un modello coerente, ma astratto dal funzionamento reale degli operatori: se anche può sembrare logico che gli investimenti derivino in linea di massima dai fondi disponibili nei risparmi, nel breve termine la logica bancaria che regola i tassi (e dunque l’erogazione di finanziamenti da investire) può essere di tutt’altra natura. La dicotomia assoluta tra risparmi e investimenti implica dunque che le deviazioni dall’equilibrio non tornino spontaneamente a compensarsi, ma necessitino invece di un intervento statale attivo.
Proprio l’analisi del breve termine rappresentò tuttavia il punto debole del Trattato: gli squilibri analizzati da Keynes non erano esclusi in via di principio dal marginalismo, ma questo riteneva che venissero riassorbiti tramite il meccanismo del libero mercato sul lungo termine. Fu così che nella Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Keynes spostò l’analisi dal disequilibrio ad un equilibrio di lungo termine, caratterizzato dal persistere di una disoccupazione evitabile ed inspiegabile secondo il liberismo marginalista.
L’economista inglese esaminò col suo pragmatismo i moventi degli operatori e giunse alla conclusione che, accanto alla decisione su quanto risparmiare, essi decidono inoltre quanto di quel risparmio investire e quanto trattenere in moneta liquida. La liquidità infatti risulta necessaria per approfittare del mercato finanziario in base alle proprie aspettative: in una prospettiva futura gli operatori si attendono delle variazioni nei prezzi dei titoli azionari, e devono perciò detenere una porzione dei loro risparmi in forma contante per avere la possibilità di comprare al momento opportuno.
I limiti della teoria marginalista
Se tuttavia parte dei risparmi è liquida, il tasso di interesse deciso dalle banche dovrà configurarsi come premio offerto ai risparmiatori per rinunciare alla liquidità. Tenendo dunque presente sia questa concezione del tasso di interesse, sia che al crescere di quest’ultimo diviene proporzionalmente meno redditizio investire nei titoli sul mercato, ne risulta che in recessione si corre un rischio peculiare. Se nel sistema infatti è sistematicamente presente una quota di risparmi trattenuta in moneta liquida, essa è massima quando i tassi di interesse sono minimi (appunto in recessione): da una parte un premio basso non incoraggerà a rinunciare alla liquidità, dall’altra i prezzi dei titoli saranno così alti che tutti si aspetteranno un loro calo, dunque gli operatori tenderanno a liquidarli.
In una teoria che, come quella marginalista, non tenga debitamente conto dell’aspettativa, i tassi in calo dovrebbero favorire gli investimenti e rilanciare l’economia in quanto, con interessi minimi, da un punto di vista finanziario i titoli rendono più della moneta, e da un punto di vista produttivo il denaro prestato costa poco. Ma ciò che in realtà accade è che da una parte si preferisce disinvestire e liquidare i titoli proprio a causa delle aspettative finanziarie sul loro crollo (se il loro prezzo è molto alto è più probabile che cadrà), dall’altra parte questa forte liquidità comporta che i tassi di interesse bancari, seppur bassi, per spingere i risparmiatori a separarsi dalla moneta vengano tenuti più alti del dovuto.
Né gli intermediari finanziari (Borsa) né gli intermediari creditizi (banche), quando i tassi di interesse sono particolarmente bassi, risultano dunque scommettere in favore della produzione: quella che di fatto si realizza è una situazione di alta preferenza per la liquidità, disinvestimento e sfiducia generalizzata nel futuro, un equilibrio di recessione permanente in cui l’occupazione si attesta su un livello immotivatamente basso.
Il libero mercato può dunque arenarsi spontaneamente nella contrazione economica e può uscire da tale equilibrio sottoccupazionale solo attraverso una spesa pubblica che crei posti di lavoro. Quando i neoassunti si affacceranno infatti sul mercato quali nuovi consumatori, la domanda maggiorata determinerà un cambiamento nelle aspettative finanziarie, fattore che, trovandosi in cima alla gerarchia delle influenze, farà finalmente preferire l’investimento alla liquidità.