Svalutazioni, dati macro negativi e rischi sempre più tangibili. È una fase critica quella che stanno vivendo i mercati emergenti i quali sembrano aver imboccato un trend negativo da cui è difficile tirarsi fuori.
I noti casi di Turchia e Argentina sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che, in linea col ciclo economico, si ripresenta periodicamente. I mercati emergenti rappresentano una scelta di investimento appetibile per via degli elevati rendimenti che offrono. Tuttavia, ciò comporta anche un maggior rischio, a causa della maggiore sensibilità ai cambiamenti macroeconomici.
Dall’inizio dell’anno molte monete di Paesi emergenti si sono indebolite e gli indici azionari hanno fatto registrare performance negative. La rupia indonesiana, a settembre, ha raggiunto il valore minimo degli ultimi 20 anni. La Lira turca vale circa il 40% in meno sul dollaro americano rispetto ad un anno fa. Il peso argentino è in caduta libera da mesi. Sul fronte azionario i listini di Brasile, Sud Africa, Turchia ed Indonesia hanno perso percentuali anche superiori al 20%.
I motivi della crisi
Se c’è una cosa che accomuna tutti gli emergenti è l’aumento del debito che hanno registrato negli ultimi 10-20 anni, del quale il 75% circa del totale emesso in dollari. I dati dell’IIF (Institute of International Finance) mostrano che l’indebitamento complessivo è passato dai 9 trilioni di dollari, del 2002, ai 69 trilioni di dollari del 2017.
Di seguito si può notare quanto sia il debito da rimborsare per ogni Paese dal secondo semestre del 2018 fino alla fine del 2019:
La dipendenza dal dollaro
È proprio la grande dipendenza dal dollaro il primo motivo di sofferenza per gli emerging markets. Un apprezzamento del dollaro USA verso la moneta locale fa incrementare il debito da rimborsare. Con il rialzo dei tassi della Fed il dollaro si è apprezzato verso la maggior parte delle valute e, al contempo, ha fatto sì che i capitali tornassero verso gli USA, causa aumento dei rendimenti sui bonds. Tale fenomeno è legato al fatto che l’economia statunitense è in un periodo di espansione.
Ad eccezione della BCE, almeno per il momento, le altre banche centrali mondiali hanno già incominciato a rialzare i tassi. Lo scenario che si sta realizzando prevede meno moneta stampata e, di conseguenza, meno liquidità da poter investire.
Il prezzo delle materie prime
Il rafforzamento del dollaro non è l’unico motivo della crisi. Un altro importante fattore da considerare è il prezzo delle materie prime. Come si può notare dal Grafico 2, il minimo relativo più recente della quotazione dell’ETF MSCI EEM è stato toccato nel 2016, anno nero per le commodities.
C’è una correlazione tra il prezzo delle materie prime ed il trend dei mercati emergenti. La persistenza dei prezzi bassi porta minori benefici per chi le materie prime le produce e le esporta.
Le altre cause
L’indebolimento dei Paesi emergenti non è collegato solo alla forza del dollaro ed al basso costo delle materie prime. Bisogna tener conto anche delle situazioni particolari dei singoli Paesi.
Dalla spirale di negatività degli emergenti sembra essersi defilata l’India. Con una crescita ancora elevata ed un’inflazione che dovrebbe attestarsi sotto al 6% nel 2018, è uno dei pochi emergenti che dall’inizio dell’anno conferma un segno positivo sui due principali indici azionari. La Cina invece, nonostante le prospettive ancora positive sul Pil, ha avuto un decremento della crescita.
La tensione derivante dallo scontro USA–Cina, con una guerra commerciale di fatto appena iniziata, rischia di essere catastrofica per i Paesi più deboli.