La crisi finanziaria che l’Islanda ha attraversato dal 2008 fino al 2011 mise in ginocchio l’intera economia nazionale. Questa ha portato al tracollo le tre banche più importanti del Paese, rendendole incapaci di ripagare i loro debiti a breve termine. Il fallimento dei tre principali istituti finanziari islandesi rappresenta il danno economico più pesante mai sopportato da uno Stato. Un contrasto quanto mai netto con il decennio precedente, segnato da una forte crescita proprio grazie alla vitalità del settore bancario.
Indice
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Fare fronte ad una situazione disperata
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Un’economia che puntava tutto sulle banche
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Le cause della crisi
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Le conseguenze della crisi
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Risoluzione della crisi
Fare fronte ad una situazione disperata
Il governo di Reykjavik elaborò un piano di salvataggio, nel quale era inclusa anche l’idea di una possibile entrata nell’Unione Europea per il Paese, allora costituito da circa 300.000 persone. I primi segnali di risposta da parte del governo giunsero però già a settembre 2008. Quell’anno ci fu la nazionalizzazione della banca Glitnir seguita, all’inizio di ottobre, dalla liquidazione coatta amministrativa della stessa e della Landsbanki per ordine dell’FME, l’autorità islandese adibita al controllo dei mercati finanziari. La stessa procedura venne applicata pochi giorni dopo per la Kaupthing, la più grande banca del Paese.
Il primo ministro in carica, Geir Haarde, dichiarò che le misure vennero adottate per evitare il tracollo nazionale dell’Islanda, ormai possibile a causa del completo squilibrio finanziario. Ad agosto del 2008 il debito verso enti stranieri del governo islandese era di 9.553 miliardi di corone, ovvero circa 50 miliardi di euro, su un PIL di 1.293 miliardi di corone, 8,5 miliardi di euro.
Un’economia che puntava tutto sulle banche
Gli asset cumulati delle tre banche nazionalizzate avevano un valore, ad agosto 2008, corrispondente a 14.437 miliardi di corone, pari ad oltre 11 volte il PIL islandese, il che vanificava qualsiasi possibilità di intervento da parte della Banca Centrale islandese. La legge di nazionalizzazione prevedeva che gli asset interni sarebbero confluiti in nuove banche strutturate come enti pubblici, mentre quelli esteri avrebbero continuato ad andare in liquidazione, per evitare di aggravare la situazione del popolo islandese.
La crisi finanziaria ebbe ripercussioni anche in ambito monetario, con il forte impatto negativo registrato sulla valuta locale, con una perdita di valore della corona islandese pari a circa il 90%. L’Islanda entrò in un periodo di recessione economica, segnato dalla diminuzione del PIL del 5,5% nei primi sei mesi del 2009.
Le cause della crisi
Nel 2001 in Islanda venne adottata una politica di deregolamentazione del settore bancario, per la quale gli istituti finanziari potevano accumulare senza limiti debiti di aziende straniere. La crisi cominciò quando si rivelò impossibile rifinanziare il debito accumulato, che ammontava a circa 50 miliardi di euro, l’equivalente di 160.000 euro per cittadino.
In realtà già agli inizi del 2007 il The Economist aveva giudicato la corona islandese come la moneta più sopravvalutata al mondo. Essendo quella dell’Islanda la realtà di un piccolo mercato interno, prima della crisi si tentava contenere il debito attraverso prestiti interbancari e con depositi di risparmiatori stranieri. La Banca Centrale islandese aumentava con regolarità i tassi di interesse, stimolando in tal modo la richiesta di investitori stranieri di aprire conti correnti in corone islandesi. La sovrastima del valore della moneta, a fronte di un’elevata inflazione, finì per diventare una vera e propria bolla speculativa, che fu fatta scoppiare dalla crisi del 2008.
Le conseguenze della crisi
Le banche
Nel programma di ristrutturazione bancaria vennero finanziate tre nuove banche, che andassero a sostituire le precedenti fallite, con consisenti investimenti da parte del governo. Inoltre, ci fu un’azione di rimborso delle banche precedenti per il valore degli asset trasferiti, così come dichiarato dai periti indipendenti. Il 24 novembre 2008, la Kaupthing e la Glitnir, avendo perso l’operatività sul territorio islandese, ottennero una moratoria sui pagamenti ai creditori da parte della corte distrettuale di Reykjavik. Nell’aprile dell’anno successivo, il ministro delle Finanze, Gylfi Magnùsson, mostrò le diverse somiglianze tra il sistema bancario islandese e la compagnia energetica statunitense Enron, fallita nel 2001.
Importazioni e disoccupazione
Le principali ripercussioni negative si registrarono sulle importazioni, tranne che per beni di prima necessità. Si verificò un ingente aumento della disoccupazione, con un tasso pari a circa il 4% della popolazione. Si sono registrate diminuzioni salariali e delle ore lavorative arrivando a calcolare, nell’agosto del 2008, 2136 disoccupati iscritti alle liste di collocamento e 495 offerte di lavoro. Anche compagnie aeree lowcost quali Sterling Airlines dichiararono bancarotta, mentre altre più solide come Icelandair furono molto colpite e sono sopravvissute solo grazie ai viaggi esteri favoriti da un indebolimento della valuta.
I creditori
Il governo islandese dovette agire anche in favore dei Paesi, soprattutto Regno Unito e Olanda, che avevano investito nelle banche locali, garantendo loro la restituzione del denaro perso. Il Parlamento islandese ha infatti approvato la restituzione di 5 miliardi di dollari entro il 2023. Non mancarono conseguenze anche a livello penale, attraverso le commissioni di inchiesta guidate da Eva Joly, la stessa che coordinò l’indagine del 1994, per truffa e corruzione, contro Elf Aquitaine. L’inchiesta si focalizzò sulla concessione dei prestiti delle banche islandesi, per metà forniti alle holding delle banche stesse e sui prestiti forniti ai dipendenti delle banche.
Risoluzione della crisi
Dopo il tracollo finanziario, tuttavia, l’Islanda si è resa protagonista di una straordinaria inversione di rotta, per registrare una completa ripresa della crescita nel 2011.
Il tutto è stato possibile grazie all’apporto di tre fattori:
- La legislazione di emergenza del 2008, con la quale il governo cercò di limitare l’impatto della crisi sul Paese, permettendo alle autorità di controllo di monitorare la situazione delle tre banche principali.
- Il successo del programma Stand-By operato dal Fondo Monetario Internazionale, con il quale si applicò una dolorosa politica di austerity, con tasse molto alte, riuscendo a stabilizzare il debito intorno all’80%-90% del PIL.
- L’aumento della credibilità dell’Islanda nei mercati internazionali dopo la richiesta del governo di entrare a far parte dell’Unione Europea. Il grande risultato lo si nota anche dall’emissione di obbligazioni pari a 1 miliardo di dollari e portate a termine entro il 9 giugno 2011.
Dal 2012 l’Islanda viene vista come un paese apprezzato.