Lo scossone causato da Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza ha provocato evidenti crepe nel sistema industriale del Nord-est italiano. Risparmiatori e imprenditori si trovano ancora in balia degli eventi che hanno coinvolto i due istituti veneti. Pochi giorni fa Carlo De Masi, neo-presidente di Adiconsum, ha chiesto di prorogare di 60 giorni il termine per il rimborso dei risparmiatori che hanno sottoscritto obbligazioni subordinate delle due banche. Molti sono rimasti contrariati dalle decisioni prese dal governo e tante critiche sono piovute da più fronti. Gli italiani continuano a chiedersi come si sia arrivati a questo punto, soprattutto a fronte delle dichiarazioni rilasciate dal ministro dell’economia Padoan, che ha ribadito in più occasioni la solidità del sistema bancario italiano.
Gli intricati grovigli che compongono la vicenda delle due venete vengono ora alla luce. Molti affermano che il disastro era prevedibile e sotto gli occhi di tutti, ma chi era incaricato di sorvegliare non ha sorvegliato e chi era in grado di porre un freno alla situazione ha preferito chiudere gli occhi di fronte alle nefandezze perpetrate tra Montebelluna e Vicenza nel corso degli anni.
La corsa e la voragine
La corsa delle banche venete inizia a dispetto della crisi economica mondiale proprio nel 2008. Gli impieghi si impennano del 64% (Veneto Banca) e del 35% (Pop. Vicenza) tra il 2008 e 2012. I prestiti vengono offerti ad amici e conoscenti, quasi sempre a costi irrisori e decisamente non remunerativi del rischio. A questo aumento clamoroso però non fa fronte una politica lungimirante e prudente di accantonamenti. Le sofferenze infatti iniziano ad aumentare di mese in mese, ma la percentuale di accantonamenti dei prestiti rimane inferiore a quella di qualsiasi altro istituto italiano. Quando la crisi si aggrava i fallimenti a catena portano ad un aumento delle sofferenze, facendo diventare il buco di bilancio una voragine: per coprirla però i due istituti usano una coperta troppo soffice e troppo corta.
Le banche iniziano a raccogliere fondi dalla clientela in una raccolta impudente e senza regole. Ricatti e induzioni per chi volesse prestiti o mutui erano all’ordine del giorno, ad esempio facendo sottoscrivere ai clienti, in cambio di tali finanziamenti, azioni della banca che, tra l’altro, avevano valutazioni decisamente fuori da ogni logica, in quanto le ex popolari ne stabilivano il valore in maniera discrezionale (nel 2014 il titolo di Pop. Vicenza era valutato 63 euro, quello di Veneto Banca 39,5. Due anni dopo il fondo Atlante le avrebbe ricapitalizzate a 10 centesimi per azione, mandando sul lastrico decine di migliaia di risparmiatori). Ma la voragine continua ad allargarsi, gli investitori istituzionali corrono ai ripari disinvestendo dalle banche, mentre viene data l’autorizzazione ai due istituti per l’emissione di ulteriori obbligazioni subordinate da offrire in pasto alla clientela. Si iniziano a vendere prodotti sempre più complessi e pericolosi a clienti con profili di rischio non adeguati, in barba alle normative MiFid.
L’esplosione del caso
Il caso pubblico scoppia nel 2013 per Veneto Banca dopo un’ispezione di Banca d’Italia che mette alla luce oltre 1 miliardo in più tra sofferenze e incagli rispetto a quanto figurava a bilancio: tra il 2013 e il 2014 Veneto Banca perde 1064 miliardi di euro. Tra i finanziamenti ai soci in cambio delle sottoscrizioni per gli aumenti di capitale figurano i nomi di consiglieri della banca come Gianfranco Zoppas e la moglie dello storico azionista D’Aguì, oltre a vari amministratori. Nel 2015, dopo un ispezione della Bce, cade nel baratro anche la Pop. di Vicenza. Insieme ai due istituti sprofondano anche i relativi responsabili, Vincenzo Consoli e Luigi Zonin: il management delle due banche si era dimostrato nel corso degli anni incompetente oltre che avventato nelle decisioni prese. Manager e amministratori avevano portato i due istituti sull’orlo del baratro e un momento prima del capitombolo si erano sfilati, lasciando migliaia di risparmiatori e centinaia di imprese con l’acqua alla gola, sul punto di affogare.
I tentativi di salvataggio
A questo punto la contromossa del governo consiste nel trasformare le due banche in S.p.a. con il fine di garantire un aumento di capitale per la successiva quotazione in borsa. Il piano, però, è un fallimento colossale ed i sottoscrittori che in un primo momento si erano mostrati interessati si tirano indietro. Il tracollo sembra ormai inevitabile. Ultima scialuppa di salvataggio il fondo Atlante che, sotto la supervisione della Cassa Depositi e Prestiti, sottoscrive le azioni dei due istituti per 10 centesimi l’una. Purtroppo però le risorse di Atlante, 3,5 miliardi, non sono sufficienti a mettere le banche in sicurezza: l’attività di intermediazione delle due banche crolla del 35% (da 1 miliardo a 650 milioni) e 12 mesi dopo Atlante ha ormai bruciato tutto il capitale investito. Si cerca una inutile fusione tra le due banche ma, come pronosticato già a maggio da Fabio Bolognini, la strada non porterà a nulla: «La fusione delle due popolari predicata dai manager che si sono succeduti appare sempre più come una mossa inutile e forse controproducente viste le condizioni di entrambe, le sovrapposizioni di rete e dei crediti».
I due istituti ormai paralizzati sono tenuti in piedi dalla liquidità della Bce, ma assomigliano sempre più a due morti viventi. Il governo a quel punto tenta l’ultima disperata mossa della ricapitalizzazione precauzionale. Dopo aver convinto la Commissione del pericolo sistemico causato dalle banche chiede di subentrare in salvataggio degli istituti, in deroga alle norme sul Bail-in, ma nonostante ciò rimane essenziale coprire le perdite certe con capitale privato in rispetto della BRRD (la normativa europea sulla risoluzione delle crisi bancarie). Il governo si rivolge al sistema bancario per la sottoscrizione di 1,2 miliardi: la risposta è un “no” secco. Si parla in un primo momento di Burden Sharing, ma la situazione impone la conversione anche dei Bond senior, strada assai tortuosa da prendere. Molti invocano la ricapitalizzazione da parte dello Stato, pur col rischio di una procedura di infrazione.
I costi della soluzione
Alla fine il governo si butta in un ultima disperata direzione: abbandona la BRRD e applica la procedura di liquidazione coatta amministrativa usando quindi la legge nazionale, con una versione ampiamente modificata. Le banche vengono dunque presentate come “in via di fallimento”. A questo punto subentra Intesa che negozia la trattativa da una posizione privilegiata e ottiene la neutralità dell’operazione rispetto al Common Equity Tier 1 ratio e alla politica di dividendi del gruppo. Le due banche vengono scorporate in due parti, una good bank acquistata da Intesa per la somma simbolica di 1 euro e una bad bank gestita da una società veicolo dello Stato. Al salvataggio si applica un Burden Sharing che prevede la protezione di correntisti e obbligazionisti senior.
La messa in liquidazione delle banche comporta un impegno di 17 miliardi per lo Stato, di cui 11 miliardi di garanzie e oltre 5,2 di esborso immediato per cassa; di questi, 4,8 servono a Banca Intesa per garantire la neutralità sui capital ratios e i restanti 400 milioni per finanziare garanzie su rischi futuri fino a 12 miliardi (6,3 miliardi per la retrocessione di crediti che non risultino in bonis e 4 miliardi per crediti in bonis ma ad alto rischio). Il costo a carico dei contribuenti pare abbastanza alto e quello che subirà la Regione Veneto potrebbe essere, nonostante il salvataggio, anche più elevato.
Conclusioni
Molti sono i quesiti senza risposta; è possibile che Abi, Banca d’Italia e Consob non si siano resi conto di quello che avveniva all’interno degli istituti? A giudicare dal volume di impieghi post-crisi sembra difficile credere che nessuno si sia accorto delle manovre poco ortodosse operate dai vertici delle due banche. I prestiti facili multimilionari concessi dai due istituti ad amici, conoscenti e imprese poco meritevoli (Alitalia, Caltagirone, Denis Verdini, Giancarlo Galan), spesso senza la dovuta prudenza e a costi eccessivamente bassi, è possibile siano passati inosservati a tutti i regolatori?
La questione delle due Banche venete porta a riflettere sul reale stato del sistema bancario italiano e sulla competenza di molti manager che ricoprono incarichi sensibili e sono spesso eccessivamente remunerati a prescindere dal raggiungimento degli obiettivi, e ancor di più sulla competenza dei vertici nei vari enti regolatori, nonché a livello politico.