L’automazione, indotta dall’esigenza di facilitare e velocizzare il lavoro umano, costituisce il punto d’arrivo di un lungo percorso. A partire dalla Seconda Rivoluzione Industriale, infatti, l’uomo, soprattutto nel settore lavorativo, ha investito e investe tutt’oggi enormi capitali per inventare nuove macchine e perfezionare quelle già esistenti. Elementi di progresso indiscutibili e straordinari, ma fino a che punto possono essere considerati tali? Ovvero, fino a che punto l’automazione può avere effetti positivi? Riusciremmo, oggi, a sopravvivere senza la tecnologia avanzata che ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere e la nostra mentalità? Tutti interrogativi, questi, le cui risposte sono controverse.
La robotizzazione ha, allo stesso tempo, migliorato e aggravato le condizioni di lavoro. Ha portato alla scomparsa di alcuni mestieri, allo stesso tempo creandone di nuovi.
Un’analisi del Report the Future of Innovation and Employment della Oxford Martin School e City GPS, a cura degli studiosi Frey e Osborne, ha analizzato le possibili conseguenze che l’innovazione tecnologica mondo del lavoro. Si stima che molte mansioni lavorative diventeranno obsolete in un’epoca di avanzata automazione tecnologica: il loro rapporto prevede infatti che, entro il 2033, il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti potrebbe essere sostituito da macchine.
Una teoria a favore di queste indagini ci è stata data agli inizi del secolo scorso da Keynes, che parlava di “disoccupazione tecnologica” sostenendo che la robotizzazione avrebbe progressivamente tolto l’uomo dal mercato del lavoro, sostituendolo con macchine più efficienti. Il trincerarsi in un ideale di pura produttività, non intrisa della reale intensificazione del lavoro operaio, ha costretto ad una posizione passiva e riluttante nei confronti delle realizzazioni produttivistiche. Il problema però è che voler insistere nel favorire, nell’operaio, una posizione di completa resistenza nei confronti delle nuove forme di razionalizzazione di lavoro comporterebbe una chiusura nei confronti del progresso tecnico e nelle forme concrete che assume, nonché l’esclusione dalla direzione del suo sviluppo, dalla distribuzione dei suoi vantaggi come dalla possibile correzione delle sue ripercussioni più negative.
Altri studiosi più fiduciosi pensano, al contrario, che i robot non potranno mai rivaleggiare con l’intelligenza umana, data la sua capacità creativa ed empatica, quindi alcuni compiti saranno sempre riservati agli esseri umani perché nessuna macchina sarà in grado di emularli.
Ma lo sconvolgimento dell’era in cui viviamo è proprio guidato da una nuova ondata di automazione centrata sulla cognizione artificiale. Le macchine applicate ad attività che richiedono capacità cognitive, che non molto tempo fa erano viste come dominio esclusivo degli esseri umani, hanno già cominciato a determinare la continua disintegrazione della linea tra quello che può fare un ‘umano’ e quello che può fare un ‘robot’. Già oggi alcuni robot sperimentali esprimono emozioni funzionali e capacità di ragionamento, e robot-androidi con sembianze umanoidi hanno fatto la loro comparsa, soprattutto in Giappone. L’efficienza e la precisione dei robot sta trasformando il manufacturing, la ricerca e l’industria in genere, espellendo non pochi lavoratori. Se ci spostiamo nell’ambito delle biotecnologie, elementi robotizzati già possono sostituire parti del corpo umano dando nuova vita ai diversamente abili. I robot, alla fine, garantiranno all’umanità molti e diversificati benefici, anche se si andrà incontro a problematiche etiche, sociali e di sicurezza che dovranno essere seriamente affrontate, cessando di considerarle come inutile gioco intellettuale di una cerchia ristretta di addetti ai lavori. Ricordando una metafora di Hans Moravec, potremmo riassumere quanto detto fin’ora in questa frase: “Il progresso delle prestazioni dei computer è come l’acqua che inonda lentamente un paesaggio”.
Da un’altra parte però non si può certo definire l’automazione come causa strutturale di perdita di posti di lavoro. Piuttosto automazione e robot hanno avuto effetti positivi a livello macroeconomico supportando una crescita globale e anche, pur non ovunque, più alti tenori di vita; inoltre, più che una “scomparsa” di lavori, il cambiamento tecnologico e l’innovazione stanno determinando via via una “sostituzione” di alcuni lavori con altri. Per fare un esempio concreto: durante il XX secolo la produttività oraria del lavoro si è moltiplicata per 13,6 volte e la durata del lavoro è diminuita del 44%.
L’unico elemento che, fino ad oggi, emerge sistematicamente come cruciale nell’attenuazione dei fenomeni di spiazzamento e sostituzione nel mercato del lavoro è l’istruzione e la formazione: lavoratori con più elevati livelli di istruzione sono meno indifesi di fronte alle innovazioni tecnologiche e a un mercato del lavoro sempre più competitivo. Poiché le innovazioni tecnologiche tendono a penalizzare maggiormente i lavori meno qualificati e routinari e le aziende meno innovative e ad ampliare o creare nuove opportunità sia per i lavori tipicamente a monte dei processi – come la progettazione, la ricerca e sviluppo – che per le aziende più innovative, ne risulta che i Paesi con i maggiori tassi di investimento in ricerca ed innovazione presentano una maggior resilienza rispetto all’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro, una maggior capacità di beneficiarne e contrastarne i potenziali effetti negativi.
Ma allora come dovremmo comportarci davanti a questa grande e continua trasformazione radicale che porterà ad un trionfo glorioso o ad una totale rovina per l’umanità?
Secondo Brynjolfsson e McAfee, autori di “In gara con le Macchine. La tecnologia aiuta il lavoro?”, dovremmo imparare a non competere con le macchine, ma evolverci per lavorare in armonia con loro e cercare di guardare il proverbiale bicchiere dalla prospettiva in cui esso è mezzo pieno e considerare che, se da un lato ci si inserisce nello scenario di una crisi dei mercati di lavoro e di una disoccupazione ormai drammatiche, dall’altro è tanto affascinante quanto utopica l’ipotesi di un futuro prossimo in cui impieghi noiosi o degradanti saranno svolti dalle macchine, mentre gli esseri umani potranno dedicarsi ad attività ben più gratificanti. L’attuale rivoluzione tecnologica non deve diventare necessariamente una sfida tra esseri umani e macchine, ma piuttosto un’opportunità per lavorare insieme e fare in modo che le persone esplorino a pieno il loro potenziale.
La parola chiave deve essere, quindi, adattabilità: le nuove sfide, afferma un rapporto del World Economic Forum, impongono che non solo le imprese ma anche i governi si riadattino al nuovo scenario e intervengano per disciplinare e regolare il cambiamento. Possibilmente in modo rapido, dal momento che quel fenomeno che il giornalista Paul Mason chiama “transizione verso il postcapitalismo” è già in corso.