Oggetto, in passato, di numerose contestazioni, la riforma delle pensioni dell’ex Ministro del lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero è tornata al centro del dibattito politico in vista delle elezioni del 4 marzo; alcuni partiti, infatti, ne propongono l’abolizione, altri assumono posizioni più moderate sostenendo la necessità di attuare qualche modifica: di fatto non accontenta nessuno.
È opportuno ricordare che il pacchetto di provvedimenti di cui la riforma fa parte, noto come Decreto Salva Italia, è stato promulgato in un contesto molto delicato: il Paese stava affrontando gli effetti della crisi finanziaria, presentava un debito pubblico molto elevato e il differenziale tra il Btp decennale italiano e il Bund tedesco toccava i massimi.
Le misure contenute in quel Decreto, quindi, erano necessarie per evitare il fallimento e per restituire credibilità al Paese in Europa. A conferma di ciò, l’art. 24, al comma 1, stabilisce che l’obiettivo della riforma è quello di «garantire il rispetto degli impegni internazionali e con l’Unione europea dei vincoli di bilancio, la stabilita’ economico-finanziaria e di rafforzare la sostenibilita’ di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo».
Contenuti della riforma Fornero
Il sistema contributivo
In primo luogo essa prevede che, a decorrere dal 1°gennaio 2012, il calcolo della pensione avvenga attraverso il metodo contributivo. Prima di tale data, infatti, alcuni lavoratori beneficiavano del sistema retributivo, secondo il quale il trattamento pensionistico era calcolato sulla base della media dei redditi percepiti negli ultimi anni e non sui contributi versati. Questo sistema era più dispendioso per la finanza pubblica, dato che i redditi maturati negli ultimi anni della vita lavorativa generalmente sono più elevati. Il passaggio al sistema contributivo, in realtà, era stato previsto già dalla riforma Dini del 1995 ma non in maniera così netta.
Oggi, in virtù dei due sistemi, i lavoratori possono essere distinti in tre categorie:
- coloro che prima del 1996 avevano un’anzianità contributiva almeno pari a 18 anni, i quali godono di una pensione quantificata con il retributivo fino al 31 dicembre 2011 e con il contributivo dal 2012;
- coloro che hanno iniziato a lavorare prima del 1996, ai quali viene applicato un sistema misto. In poche parole, la quota di pensione maturata fino al 31 dicembre 1995 viene calcolata con il sistema retributivo e dopo tale data con il contributivo;
- coloro che hanno iniziato dopo il 1° gennaio del 1996, i quali maturano la pensione esclusivamente con il metodo contributivo.
La pensione, con tale sistema, si calcola a partire dall’ammontare dei versamenti effettuati, al quale vengono applicati i coefficienti di trasformazione che aumentano al crescere dell’età di pensionamento. Questo meccanismo rappresenta un incentivo alla prosecuzione dell’attività lavorativa, dato che comporta una rendita maggiore per coloro che ritardano il pensionamento.
La pensione
Oggi, con la riforma Fornero, sono previste due prestazioni a favore del lavoratore: la pensione di vecchiaia e quella anticipata che richiede soltanto il possesso del requisito contributivo. Per il triennio 2016-2018, per accedere alla pensione anticipata, bisogna avere 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva per gli uomini e un anno in meno per le donne.
La novità che ha scaturito maggiori polemiche, però, è stata l’aumento dei requisiti anagrafici per la pensione di vecchiaia, fissati, a decorrere dal 1° gennaio 2018, in 66 anni e 7 mesi per le lavoratrici e i lavoratori sia dipendenti che autonomi, con l’aggiunta che «il diritto è conseguito in presenza di un’anzianità contributiva minima pari a 20 anni», e stabilendo, per i lavoratori il cui primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996, che l’importo della pensione debba essere almeno pari a 1,5 volte l’assegno sociale indicato dalla Riforma Dini. Questa innovazione ha creato il problema degli esodati, ovvero di quelle persone che sono uscite dal mercato del lavoro in virtù di accordi aziendali ma, a causa dell’innalzamento dell’età di pensionamento, non possiedono più i requisiti per accedervi.
Inoltre «resta ferma la disciplina di adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita»: ciò significa che l’età di pensionamento varia in base all’allungamento della speranza di vita, che viene aggiornata periodicamente. In virtù del prossimo adeguamento, previsto per il 2019, l’età pensionabile arriverà a 67 anni.
Prospettive
La proposta avanzata da alcuni partiti, in particolare Lega e M5S, di cancellare la riforma non sembra sostenibile: secondo Tito Boeri, presidente dell’Inps, il suo azzeramento costerebbe circa 20 miliardi di euro l’anno. A sostegno di questa tesi è intervenuto Carlo Cottarelli, il quale afferma che l’abolizione causerebbe un aumento del livello delle pensioni e quindi una maggiore spesa pubblica che graverebbe sul debito.
Appare più credibile l’ipotesi di una modifica al fine di agevolare determinate categorie di persone; proprio in questi giorni è partito l’Ape volontario, una misura rivolta ai lavoratori dipendenti e autonomi che consente di ottenere un prestito erogato in quote mensili fino al conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia.
Al di là degli aggiustamenti realizzabili, abolire la legge Fornero vorrebbe dire tornare indietro. In un Paese che non cresce, aumentare la spesa pubblica non costituisce una via percorribile; farlo significherebbe scaricare nuovamente il debito sulle generazioni future che continuano a pagare per responsabilità altrui. Per una volta, andiamo avanti.