Di Warren Buffett e dei suoi principi di investimento si è già diffusamente trattato in altre occasioni (clicca qui e qui), pertanto lo scopo di questo articolo è quello di esplorare la teoria finanziaria di uno dei più illustri investitori al mondo che sembra scardinare la maggior parte dei capisaldi che si imparano all’università. Leggendo di fondamentali concetti come razionalità, efficienza, rischio e diversificazione, in una prospettiva nuova alla luce della sua teoria degli investimenti, si giunge a conclusioni quasi opposte a quelle apprese in sede accademica e incarnate dagli esperti della finanza classica come per esempio R. Merton.
Razionalità ed efficienza
Charlie Munger, colui che Buffett definisce “il mio socio”, ritiene che «Quell’irrazionalità era chiaramente un fattore importante per il nostro lavoro, ma nessun professore ce ne aveva mai parlato». Così viene scardinato il principio della razionalità dei mercati. Quest’ultima vuole che il mercato sia formato da investitori che ogni giorno conferiscono agli asset un valore equo “giusto” e svolgono previsioni corrette sui futuri andamenti, in base ai dati e informazioni attualmente disponibili. Quindi le informazioni non si riflettono istantaneamente sui prezzi di mercato dei titoli? In altre parole, i mercati non sono efficienti? Buffett così risponde: «Constatando che il mercato era spesso efficiente, [i fautori dell’ipotesi] ne hanno tratto la conclusione errata che fosse sempre efficiente. Queste due affermazioni sono diverse quanto il giorno e la notte» [Buffett 1988]. In particolare, Buffett individua una interconnessione tra i due concetti: un mercato efficiente non è necessariamente razionale, in quanto tutte le informazioni potrebbero sì essere prezzate in maniera istantanea, ma in modo non corretto, ossia dandone una valutazione errata in termini di prezzo. Al contrario, la razionalità implica efficienza dei mercati, perché la definizione stessa di «aspettative razionali» comporta l’istantanea e corretta incorporazione di tutti i dati le informazioni disponibili sul mercato. Giunti a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché cercare di investire in titoli sopra o sottoquotati se tanto il mercato non è razionale, e neanche sempre efficiente? La risposta risiede in una metafora che Buffett prende in prestito dal suo maestro Graham: «Nel breve periodo il mercato è una macchina che vota. Nel lungo periodo è una macchina che pesa». In altri termini, solo attraverso un orizzonte temporale di lungo periodo il mercato riesce ad attribuire il “giusto peso” agli asset, poiché se nel breve i prezzi dei titoli sul mercato sono stabiliti l’uno rispetto all’altro come in un’elezione in cui vince chi ottiene più voti, nel lungo periodo il mercato “prima o poi” ne darà una giusta valutazione, perché “qualche volta” si comporta in modo razionale, e in questa prospettiva l’acquisto di titoli sottoquotati assume un significato.
Rischio e competenza
Ogni investimento ha un certo grado di rischio, ma Buffett come lo misura? La finanza classica, sostenitrice dell’efficienza dei mercati, misura il rischio tramite la volatilità, ossia la deviazione standard dei rendimenti del prezzo su una base temporale scelta secondo le preferenze dell’investitore. Questa misura è ovviamente dipendente dalla fluttuazione delle informazioni disponibili sul titolo, perché saranno queste ad impattare direttamente sul livello di prezzo, e dunque, in questa ottica, più le informazioni attese saranno frequenti e rilevanti, più accentuati saranno i movimenti di prezzo attesi, e quindi maggiore sarà la volatilità attesa del titolo, ossia il suo rischio. Eppure, questa impostazione, anche se elegante sotto un punto di vista matematico, non è condivisa da Buffett, il quale sostiene: «Siamo avversi al rischio, non alla volatilità». Per lui il rischio non è correlato alla volatilità, ma, riagganciandosi al principio secondo cui ciascun investitore deve agire nella propria sfera di competenza, ritiene che il rischio sia il frutto del «non sapere cosa si sta facendo». Visto da questa angolazione, il rischio risiede nella capacità dell’investitore di stimare correttamente i cash flow connessi ad un titolo, attribuendovi dunque un valore equo coretto, senza avventurarsi al di fuori di ciò di cui è competente. In tal senso è rimarcata l’importanza del perimetro dell’area di competenza dell’investitore, e della consapevolezza che se ne deve avere. Secondo l’impostazione di Buffett dunque ridurre il rischio non implica ridurre la redditività, come la finanza classica insegna, e l’incertezza che stimola la volatilità viene accolta positivamente, perché consente ai prezzi di raggiungere livelli di gran lunga più bassi rispetto il valore equo del titolo, generando così un’ottima opportunità di investimento per chi ha un orizzonte temporale di lungo periodo. Pertanto, il singolo dato statistico (come il beta o la volatilità), utile per l’allocazione dei capitali secondo la teoria Markowitziana, perde di importanza, perché il rischio deriva dal fatto che l’investitore sbaglia a giudicare la propria sfera di competenza, investendo in titoli che vi rientrano solo apparentemente. È bene sottolineare però che questa idea di rischio è difficilmente applicabile universalmente, ed è principalmente adatta alla strategia di investimento di Buffett, ossia quella di chi investe solo in businesses che sono percepiti semplici, comprensibili e prevedibili, il tutto in un orizzonte di lungo termine (a Buffett piace pensare eterno) noncurante della volatilità del mercato.
La diversificazione
Un logico sviluppo di questa concezione di rischio coinvolge sicuramente il concetto di diversificazione. Questo può così riassumersi: «La diversificazione…ha pochissimo senso per chi sa cosa fa» [Buffett cit. in Lowe 2007, p.207]. Come è evidente, dato che nella sua prospettiva l’investitore deve investire solamente in titoli che conosce realmente, in un orizzonte di lungo termine e dopo averne stimato il “giusto” valore, risulterebbe inutile diversificare il portafoglio, ed anzi controproducente nel caso di un numero elevato di titoli, poiché se un gestore di fondi investisse in 60/80 titoli, difficilmente riuscirebbe a selezionarli tutti con la dovuta minuzia, attenzione, e consapevolezza. In altre parole: «Se la vostra unica convinzione è che un buon posto in cui mettere i vostri soldi siano titoli da conservare a lungo termine, probabilmente dovreste averne almeno una ventina…Ma se analizzate a fondo le aziende, e prendete decisioni consapevoli in base a quello che pensate sarà il futuro dell’azienda in cui investite…allora mi sembra più che sufficiente riuscire a trovarne sei o otto» [Buffett 1994].
La fonte principale di questo Approfondimento è il libro Investire come Warren Buffett. Strategie di acquisizione e value investing per guadagnare in borsa di Elena Chirkova (Ed. HOEPLI, 2016).