Dal 1990 fino al 1998 l’Argentina crebbe in maniera costante e quasi ininterrotta. Nonostante il lungo ciclo espansivo dell’economia, il Paese nel 1998 entrò in una spirale negativa che si concluse con il default nel 2002, uno dei più gravi della Storia.
Una decade di crescita
Gli anni 90’ costituirono per l’Argentina un periodo di straordinaria crescita economica. Il Paese crebbe con percentuali molto più alte rispetto alle vicine economie sud-americane. Buenos Aires sembrò aver superato l’instabilità politica ed economica che avevano contraddistinto la Storia nazionale per gran parte del ‘900.
La politica economica neoliberista di Menem
Il Presidente argentino, Carlos Saúl Menem, eletto nel maggio 1989, ed il suo ministro dell’Economia, Domingo Cavallo, introdussero una serie di riforme economiche radicali per risolvere i problemi economici dell’Argentina, ovvero deficit di bilancio, inflazione non controllata e bassi tassi di investimento esteri. Le politiche di Menem si ispirarono ai “Washington Consensus“, una sorta di dieci comandamenti economici formulati da FMI, Banca Mondiale e governo degli Stati Uniti. I fini principali del governo argentino erano la riduzione dell’inflazione, la privatizzazione dell’industria, e la rimozione delle barriere commerciali. I “Washington Consensus” costituirono i principi base della dottrina economica che in seguito verrà denominata “neoliberismo”.
Il PIL pro capite dell’Argentina crebbe in modo significativo dal 1991 al 1994, con un tasso di crescita superiore al 10% fra 1991 e 1992. Il PIL totale passò da circa 200 miliardi di dollari USA, nel 1990, ad oltre 310 miliardi nel 1998. Il tasso di crescità medio del valore delle esportazioni passo dal 4,5% degli anni 80’ al 7,9% degli anni 90’. La spesa pubblica, superiore al 35% del PIL negli anni 80’, scese di oltre 10 punti percentuali durante l’ultimo decennio del secolo.
La ley de convertibilidad
La misura più famosa del governo Menem fu la “ ley de convertibilidad” del 1991. Questa istituiva un sistema a cambio fisso fra peso e dollaro statunitense, con rapporto di valore 1:1, un dollaro per un peso e viceversa. La legge, che di fatto limitava la politica monetaria Argentina, contribui a stabilizzare l’inflazione, negli anni ’80 superiore al 600% annuo.
Il sistema a cambio fisso introdotto dalla ley de convertibilidad, elaborato dal ministro dell’Economia del governo Menem, Domingo Cavallo, impediva alla BCRA, la Banca Centrale Argentina, di attuare politiche monetarie espansive. Infatti, la quantità di pesos immessa nel mercato doveva essere corrisposta da una pari quantità di dollari statunitensi posseduti da Buenos Aires. Così, il nuovo sistema eliminava le aspettative d’inflazione, in quanto rendeva impossibile stampare denaro per finanziare il deficit di bilancio del Paese.
La ley de convertibilidad ebbe immediato successo nel ridurre l’inflazione, che scese al 2,9% mensile dal 27% di gennaio 1991. Nei dieci anni successivi, resterà quasi sempre introno allo 0,5%.
La crisi del debito
Dopo 5 anni di sviluppo economico ininterrotto, l’economia argentina iniziò a manifestare i primi segnali di debolezza in seguito alla “Crisi Tequila” del 1995. Questa generò una parziale crisi del debito, le autorità politiche ed economiche riuscirono però a contenerla. Il crollo dell’economia messicana aveva infatti avuto come conseguenza il rallentamento dei flussi di capitali nei mercati internazionali. L’Argentina fu costretta ad alzare i tassi d’interesse che prometteva agli investitori privati per evitare che la situazione precipitasse. La “Crisi Tequila” aveva mostrato come l’Argentina fosse troppo esposta nei confronti degli investitori internazionali e come il suo debito stesse crescendo a tassi sempre meno sostenibili. Nonostante questo il governo, che si trovava in periodo di campagna elettorale, ignorò i segnali e, al contrario, aumentò la quantità di bond e titoli nazionali e provinciali emessi sul mercato. Pesarono in questa scelta una serie di valutazioni errate in politica economica e monetaria.
L’inizio della crisi
Il cambiamento dello scenario economico internazionale, divenuto sfavorevole alle esportazioni argentine, e la “ley de convertibilidad”, che ancorava il peso argentino al dollaro statunitense, spinsero il Paese nella crisi economica a partire dal 1998. Un prestito SBA accordato all’Argentina dal FMI nel 2000 non fu sufficiente. Infatti, il Fondo stesso giudicò il governo argentino non in grado di rispettare l’accordo stipulato.
La fine degli aiuti dal FMI ed il default
Thomas Recihman, cileno e senior economist del FMI, ebbe il compito di comunicare al Presidente argentino, De la Rua, nel Dicembre 2001, che il Fondo avrebbe interrotto gli aiuti economici che forniva al Paese. Recihman era a capo della missione del FMI giunta a Buenos Aires per una delle periodiche visite di controllo della corretta applicazione delle misure concordate.
La decisione di interrompere i prestiti all’Argentina venne presa a Washington, sede centrale del FMI, dove regnava il pessimismo nei confronti delle prospettive future dell’economia Argentina in seguito al “Coralito”. Si trattava di una contestata legge del governo argentino che impediva ai cittadini del Paese di ritirare più di 250 dollari in contanti alla settimana. Inoltre, si congelava ogni trasferimento di denaro verso l’estero, in un disperato tentativo di frenare la fuga di capitali dal Paese e la mancanza di liquidità della banca centrale.
Il passo indietro dell’FMI chiuse l’ultimo rubinetto di credito rimasto al Paese, ormai privo di qualsiasi credibilità nei mercati internazionali ed impossibilitato a pagare gli interessi sul proprio debito. L’Argentina era ormai in ginocchio di fronte ad una crisi del debito con tassi d’interesse fuori controllo. Il debito del Paese, la maggior parte del quale nelle mani della Banca Centrale e dei governi provinciali, raggiunse il 50% del GDP a fine 2001 con 30 milioni d’interesse sul debito a scadenza nel 2002.
Il Default
In un clima di instabilità politica e di violenti scontri, a fine dicembre 2001, l’Argentina annunciò il default del proprio debito e, nel gennaio 2002, abbandonò la “ley de convertibilidad”. La legge venne abbandonanta in quanto l’obbietivo del governo post default era proprio quello di svalutare il pesos, il quale se lasciato libero di fluttuare si sarebbe deprezzato. In questo modo le esportazioni argentine sarebbero diventate meno costose per gli acquirenti, facendo così ripartire l’economia. Nonostante questo, l’Argentina si privava così di uno strumento che aveva garantito una parvenza di normalità macroeconomica nei 10 anni passati.
La “pesificazione” forzata
Dopo il 2002 il governo argentino convertì forzatamente i depositi denominati in dollari statunitensi in pesos, spazzando via i risparmi della classe media argentina. La forzata “pesificazione” dell’economia argentina comportò la perdita di oltre 1/3 del valore nominale dei depositi privati ed il Pesos perse i ¾ del proprio valore iniziale.
L’economia Argentina, già in recessione dal 1998, si contrasse dell’11% nel 2002. Il tasso di disoccupazione salì dal 14,8%, del 1998, al 22,5% del 2001. Come conseguenza del deterioramento della situazione economica, la percentuale di argentini che vivevano al di sotto della soglia di povertà aumentò. Da un già alto 25,9% del 1998 si arrivò al 57,5% del 2002. La crisi politica e sociale che ne conseguì fù la peggiore nella storia del Paese. Ci furono conseguenze anche in Italia, dove quasi mezzo milione di piccoli risparmiatori, allettati dai rendimenti molti alti, aveva investito in Bond argentini, divenuti carta straccia.
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