1 Giugno 2018. Il Governo giallo-verde si insedia a Palazzo Chigi. L’estate è rovente e il programma elettorale del nuovo governo agita i sentimenti nazionali ed europei. In autunno non va meglio: l’esibizione muscolare con l’UE porta ai picchi di spread, che se da un lato vedono perdere il comparto finanziario e assicurativo (con ricadute sull’intero tessuto economico), dall’altro incontrano la demonizzazione dell’esecutivo stesso, che battezza i mercati come “ingiusti e cattivi”. La sfida vede il suo apogeo proprio nella legge di bilancio, che, a conti fatti, rappresenta il documento programmatico di politica economica più importante dell’esecutivo.
Pochi investimenti, troppo assistenzialismo
Sostanzialmente è questa la critica mossa, da tecnici e non, al documento di bilancio, sin dal suo concepimento. Il problema fondamentale consta del fatto che la maggiore spesa pubblica deriva, per l’80%, da aumenti di spesa corrente, e solo per il restante 20% da maggiori investimenti in conto capitale. Solo questi ultimi, però, sono in grado di assicurare una stabile crescita economica a lungo termine, che in questi anni è mancata proprio a causa della discontinuità d’intenti degli esecutivi succedutisi. In quel famigerato 80% sono compresi i cavalli di battaglia della coalizione giallo-verde: reddito di cittadinanza, quota 100 e flat tax. Manovre che potrebbero avere un effetto espansivo della domanda interna, ma che, se gestite male, rischierebbero di pesare sulle generazioni future, su cui grava già un pesante fardello (i paesi scandinavi insegnano che per combattere la povertà non basta l’assistenzialismo, ma serve un piano di reinserimento sociale strutturato).
La zuffa dei decimali
I “venti del nord” si sono affievoliti solamente con l’ammissione, da parte del governo, di una crescita che non supererà l’1% nel 2019, contro l’1,5% previsto inizialmente. Una previsione al ribasso del prodotto interno lordo implica minori entrate, che, a loro volta, causano un maggiore deficit, stimato intorno a mezzo punto percentuale per ogni punto di PIL rivisto al ribasso.
La previsione proviene soprattutto da una riduzione della domanda interna di beni ed investimenti, che ha sancito il famoso -0,1% di crescita del PIL trimestrale. E’ dunque evidente che le affermazioni di Conte, che addossava il rallentamento all’Europa, sono errate. L’export, infatti, continua a tirare e i paesi europei a crescere.
Tagli di spese…
Arriviamo dunque all’atto finale. L’emendamento sul testo della manovra prevede:
- Taglio di 2 miliardi a reddito e pensione di cittadinanza, rischiando di rendere inefficiente e potenzialmente pericoloso uno strumento che potrebbe finire per rivelarsi di mero assistenzialismo.
- Taglio di 2,7 miliardi alla c.d. “quota 100”. Anche qui, la revisione stride da un lato con le promesse elettorali e, dall’altro, con l’effettiva utilità delle misure stesse, in un paese che, difettando di natalità, perderebbe prematuramente forza lavoro.
- 1,4 miliardi derivanti da maggiori dismissioni immobiliari.
- 3 miliardi derivanti dai tagli dei sussidi a Ferrovie dello Stato e a progetti di coesione territoriale.
- 150 milioni di web tax
… E clausole di salvaguardia
La vera garanzia della Commissione europea. Fortemente osteggiate in campagna elettorale e fino a qualche settimana fa, le clausole di salvaguardia costituiscono, sostanzialmente, la copertura alle manovre previste. Ma la contraddizione è ormai evidente: che senso ha combattere la povertà aumentando la spesa pubblica, quando la copertura della stessa spesa è data dall’aumento di tasse regressive come l’IVA? Ovviamente, se l’effetto espansivo della domanda previsto dal governo dovesse vedere la luce, non scatterebbe nessun aumento. Gli indici dei prossimi mesi ci diranno di più.