Chi è William Sharpe?
William Sharpe, classe 1934, è oggi uno degli economisti viventi più influenti, che è stato in grado di condizionare radicalmente lo sviluppo della finanza accademica e applicata a partire dal secolo scorso. Considerato il padre fondatore del noto Capital Asset Pricing Model (CAPM), nel 1990 fu insignito del premio Nobel per l’economia, insieme ai colleghi Harry Markowitz e Merton Miller. I primi anni di studi di Sharpe ebbero una direzione incerta, infatti, iscritto inizialmente alla facoltà di medicina presso l’Università di Berkley, dopo il primo anno decise di iscriversi alla Università della California a Los Angeles per iniziare un corso di laurea in Business and Administration. Tuttavia, non riscoprendo particolare interesse per la contabilità, cambiò nuovamente facoltà, iscrivendosi infine ad Economia.
Durante i suoi studi, sotto l’influenza di svariate personalità del mondo accademico, fu introdotto alla Portfolio Theory di Markowitz da J. Fred Weston. Conseguì dunque la laurea triennale nel 1955 e un master nel 1956. Nello stesso anno si unì alla RAND corporation e nel frattempo iniziò il suo dottorato, sempre presso l’UCLA, sotto la supervisione di Armen Alchian, suo mentore. Tra le università in cui ha insegnato non possiamo non annoverare la prestigiosa università di Stanford, a cui si unì nel 1970. Nel 1989 si è ritirato dall’insegnamento, mantenendo la carica di Professore Emerito di Finanza presso Stanford, per dedicarsi alla sua società di consulenza, William F. Sharpe Associates. Nel 1996 ha fondato il Financial Engines che cerca di sfruttare lo sviluppo tecnologico per testare le teorie finanziarie circa il portfolio management. Oltre al noto CAPM, Sharpe ha dato ulteriori importanti contributi: con il modello di Cox-Ross-Rubinstein ha contribuito allo sviluppo dei modelli ad albero binomiale per la valutazione delle opzioni, è stato inoltre rilevante per lo sviluppo del metodo del gradiente per l’ottimizzazione dell’asset allocation, e la style–analysis per la misurazione e valutazione delle performance dei fondi di investimento.
Il CAPM, assunzioni e sviluppo del modello
Il Capital Asset Pricing Model è oggi uno dei modelli di valutazione più impiegati nei diversi campi della finanza e probabilmente fu ciò che valse a Sharpe il Nobel nel 1990, nonostante gli fu assegnato per la più generica motivazione di «contributi pionieristici nell’ambito dell’economia finanziaria». Il CAPM è un modello di equilibrio statico utilizzato per la valutazione di attività. In particolare, senza entrare nei formalismi matematici, esso individua il rendimento di equilibrio che ciascun titolo dovrebbe restituire in ragione del suo grado di rischio. Prima di entrare più nel dettaglio nella relazione che lega rischio e rendimento, è bene soffermarci sulle assunzioni sui cui il modello si basa, per non perdere di vista le semplificazioni che, per quanto necessarie, comunque ne possono inficiare l’applicabilità.
Il CAPM si sviluppa in un contesto media-varianza, pertanto sono considerate valide ed essenziali tutte le assunzioni alla base della Modern Portoflio Selection elaborata da Markowitz. Tuttavia, a queste se ne aggiungono delle altre:
- L’orizzonte temporale uniperiodale adottato è uguale per tutti gli investitori;
- Ogni investitore ha aspettative omogenee circa il futuro (ossia, dato che siamo in un contesto media-varianza significa che i rendimenti attesi, le varianze e covarianze dei rendimenti attesi di tutte le attività rischiose sono identiche per tutti gli investitori);
- Esiste un’attività priva di rischio (risk-free) uguale per tutti, e a cui ogni investitore può accedere senza limitazione di quantità;
Da queste assunzioni discende che ciascun investitore realizzerà la stessa frontiera efficiente, in quanto ogni investitore si relazionerà con le stesse attività rischiose, e ne avrà le stesse aspettative in termini di rendimento e volatilità. L’importante novità, rispetto il modello di Markowitz, è l’introduzione di un asset privo di rischio (riskless), infatti quest’ultimo può essere inserito nel portafoglio per ridurre la varianza complessiva, attraverso la diversificazione, e raggiungere un rapporto rischio-rendimento superiore rispetto quello realizzabile in sua assenza. Difatti, in questo nuovo contesto, il portafoglio ottimale per l’investitore è costituito da una quota di risk-free, e da una quota di un portafoglio costituito dalle attività rischiose (risky).
In particolare, ciò che risulta particolarmente rilevante è che, attraverso una serie di passaggi matematici che sfruttano l’algebra matriciale, sviluppando il problema della minimizzazione della varianza per ogni dato livello di rendimento atteso, è dimostrabile che la composizione del portafoglio di attività rischiose è uguale per tutti gli investitori ed indipendente dal loro grado di avversione al rischio (two-fund separation theorem). In altre parole, nel costruire il portafoglio ottimale, il grado di avversione al rischio dell’investitore sarà determinante solo nel decidere il peso (ossia la quota relativa) da assegnare al portafoglio risky e all’asset risk-free, ma non impatterà in alcun modo sulla composizione del potafoglio risky, chiamato Market Portfolio, il quale invece sarà uguale per tutti gli investitori.
Per approfondire questo argomento, leggi il nostro articolo sul confronto tra CAPM e APT.
La relazione rischio-rendimento
Considerando quanto detto, è dunque identificabile una nuova frontiera efficiente, lineare, tangente a quella individuata nel modello di Markowitz (e tangente proprio in un punto che corrisponde al Market Portfolio). Questa frontiera, definita Capital Market Line (CML) esprime il trade-off rischio rendimento che vale per i portafogli efficienti (ossia che si trovano sulla frontiera). In particolare, essa esprime una proporzionalità diretta e lineare tra la volatilità del portafoglio efficiente e il rendimento che esso ritorna. L’estensione di questa relazione ai portafogli non efficienti prende il nome di Security Market Line (SML), la quale individua una proporzionalità diretta e lineare tra la rischiosità di un titolo (questa volta misurata dal suo beta, che descrive il rischio sistematico, ossia il rischio di mercato non diversificabile) e il suo rendimento.
Cruciale è capire la differenza tra le due relazioni: la prima è valida solo per i portafogli efficienti ed è un caso particolare della seconda (ossia quando il beta coincide con il rischio complessivo del titolo misurato dalla volatilità), la seconda, al contrario, è sempre valida e lega l’esposizione al rischio sistematico di un titolo con il suo rendimento. In ambo i casi, comunque, un aumento dell’esposizione al rischio di mercato per un titolo implica un aumento del rendimento atteso che esso ritorna, ed in particolare, il rapporto tra l’aumento del rendimento e del rischio è costante, in quanto la relazione che li lega è lineare.
Risvolti pratici
Tra i risvolti pratici più rilevanti del CAPM vi è senz’altro l’applicazione nelle valutazioni di business, in particolare è impiegato per la stima del “costo dell’equity”, e dunque di una delle componenti del “WACC” (costo medio ponderato del capitale) utilizzato per scontare i flussi di cassa connessi ad un business. Vero è che, essendo un modello unifattoriale, prende in considerazione un solo fattore per giustificare i rendimenti di un titolo e pertanto potrebbe mancare di una visione più ampia circa la determinazione corretta del rendimento, motivo per il quale sono nati modelli multifattoriali come quelli dell’Arbitrage Pricing Theory (APT) che aggiungono altri fattori al modello.
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