Nel 1892 l’Italia era unificata da un triennio e Roma era la capitale del regno da ormai ventun anni. Il Paese era però ancora molto frammentato dal punto di vista socio-economico ed anche il sistema bancario ne era un esempio tangibile. Erano infatti sei gli istituti di credito che facevano parte del Consorzio obbligatorio degli istituti di emissione e che avevano quindi il potere di stampare moneta: Banca Nazionale del Regno d’Italia, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia, Banco di Napoli, Banco di Sicilia e Banca Romana.
Ciascuna banca doveva rispettare un tetto massimo di banconote che poteva emettere ogni anno ed un preciso rapporto tra circolante e riserve auree. Questa conformazione si era realizzata nonostante la contrarietà di Cavour, morto poco dopo l’unificazione. Cavour avrebbe voluto un unico istituto titolare del potere di stampare nuove banconote, magari proprio la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la più importante banca privata italiana ed erede degli istituti di credito savoiardi e dell’Emilia. Alla fine del 1892 era in discussione alla Camera dei Deputati la proposta di proroga per altri sei anni del potere di emissione per i sei istituti di credito.
Lo scandalo
Già nelle fasi di dibattito parlamentare erano diversi i rumors circa le irregolarità portate avanti dagli istituti di credito nazionali. Il Presidente del Consiglio di allora, Giovanni Giolitti, in accordo con il ministro dell’Industria Luigi Miceli decise quindi di indire un’ispezione accurata sullo stato di salute dei sei istituti. A svolgere i controlli fu il deputato e Presidente della Corte dei Conti Giacomo Giuseppe Alvisi. Quello che Alvisi poté appurare fu una situazione di grave difficoltà, in particolare per il Banco di Napoli e per la Banca Romana. Dalle sue verifiche emerse un eccesso di 25 milioni di lire di banconote in circolazione (circa 100 miliardi di euro attuali), ammanchi contabili e crediti dalla scarsa esigibilità.
Con il pretesto di ritirare dalla circolazione banconote usurate, il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo, aveva infatti fatto stampare nuove banconote, che però riportavano lo stesso timbro e numero di serie di quelle destinate alla distruzione. Si trattava perciò di un duplicato e dal momento che né le banconote usurate né quelle sostitutive vennero ritirate si arrivò ad un surplus di moneta ben oltre il tetto massimo consentito con quella che era una vera e propria truffa nei confronti dell’erario.
In tutto e per tutto si trattava di una truffa, perpetrata per coprire le perdite sorte a causa di crediti troppo generosi concessi al settore edilizio ed a tutta l’élite romana del tempo. La relazione di Alvisi non venne però resa pubblica per volontà del Governo, che temeva una corsa agli sportelli e il deflagrare di una crisi ben più profonda.
La scelta di Giolitti di nominare senatore Bernardo Tanlongo sembrò però una mossa in forte controtendenza e lo stesso Alvisi decise quindi di rendere pubblico il contenuto dell’inchiesta. Fece infatti arrivare le carte a Napoleone Colajanni, deputato del Partito Repubblicano, che nella seduta parlamentare denunciò lo scandalo e l’insabbiamento da parte dell’esecutivo.
La vicenda divenne di dominio pubblico e venne fatta luce sugli squilibri finanziari della Banca Romana e sui Non Performing Loans che aveva posto in essere. A ciò seguì un’altra inchiesta parlamentare, l’apertura del procedimento giudiziario nei confronti del Governatore Tanlongo, che venne arrestato, con 61 udienze e molti dubbi sul contenuto delle carte processuali. Erano, infatti, diverse le testimonianze, tra le quali quella di Ferdinando Montalto, funzionario di polizia, che spiegavano come svariati documenti riguardanti nomi importanti fossero stati fatti sparire.
Mentre le due commissioni parlamentari d’inchiesta si concludevano con un chiaro messaggio nei confronti di Tanlongo e della Banca Romana, il processo penale fu molto diverso. La sentenza per Tanlongo e per tutti gli altri imputati per lo scandalo della Banca Romana fu di totale assoluzione.
Dopo lo scandalo
Il seguito principale del dissesto della Banca Romana, assieme alla debolezza degli altri istituti di credito disseminati nella Penisola, fu la formazione della Banca d’Italia, che nacque dalla fusione di Banca Nazionale del Regno d’Italia, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia e Banca Romana, che era stata posta in liquidazione, per un totale di quattro delle sei banche che componevano il Consorzio obbligatorio degli istituti di emissione. La Banca d’Italia condivise tuttavia con il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia il potere di emettere moneta e solo dal 1926 divenne l’unico istituto a stampare nuova valuta e con la responsabilità di vigilare sul settore creditizio.