Fin dalla loro origine, le banche hanno dovuto sempre far fronte al trade-off rischio-rendimento e questo binomio, con l’incremento dei requisiti di capitale richiesto dalle nuove regolamentazioni, come gli Accordi Internazionali di Basilea, è diventato sempre più stringente e difficile da mantenere nel tempo.
Infatti, nella loro normale attività, le banche sono esposte a diverse tipologie di rischio, da quello di credito, derivante sia dall’incapacità della controparte di far fronte ai propri impegni contrattuali sia al deterioramento della qualità creditizia, a quello di mercato, tipico delle banche che effettuano frequenti operazioni sui mercati finanziari. In particolare, con lo sviluppo dei mercati finanziari nel XX secolo e la globalizzazione il rischio di mercato ha assunto un’importanza sempre maggiore per le grandi banche d’investimento (Tier1 bank).
Queste diverse tipologie di rischio in passato erano misurate e stimate secondo molteplici approcci, rendendo tuttavia difficoltosa una stima precisa dei rischi totali a cui era esposta la banca in un determinato momento. Questa problematica divenne evidente nel tristemente noto “lunedì nero” del 1987, in cui il Dow Jones subì una perdita di circa il 22%. Per tali ragioni nel corso degli anni Novanta il CEO di J.P. Morgan, Sir Dennis Weatherstone, ordinò al suo team di sviluppare un indicatore sintetico che fosse in grado di cogliere tutti i rischi a cui era esposta la banca in un unico documento, il “report delle 4.15”, consegnato allo stesso CEO alla chiusura dei mercati. La pubblicazione di tale metodologia da parte di J.P. Morgan portò alla diffusione del Value at Risk (VaR), che fu rapidamente adottato da numerose istituzioni grazie alla banca dati di RiskMetricsTM.
Il concetto di base del Value at Risk è molto semplice in quanto fa ricorso alla nozione statistica del percentile, cioè un valore qa che divide la popolazione in due parti, che sono proporzionali ad a e (1-a), con valori minori e maggiori di qa. Il VaR rappresenta la massima perdita probabile che, con un determinato intervallo di confidenza, potrà verificarsi in un dato periodo di riferimento (holding period). Come è facilmente intuibile tale misura è fortemente influenzata dall’intervallo di confidenza scelto, generalmente compreso tra il 95% e il 99%, e dal periodo di riferimento considerato.
A seguito della pubblicazione da parte di J.P. Morgan del modello utilizzato, si sono sviluppate numerose metodologie volte a migliorare la versione originaria di RiskMetricsTM così da cogliere in modo più puntuale le diverse tipologie di rischio. La principale classificazione dipende dall’ipotesi di partenza usata: il modello utilizzato può basarsi sull’assunzione di una distribuzione normale dei parametri di mercato (nel cosiddetto Approccio Parametrico), cioè una distribuzione campaniforme caratterizzata da media zero e varianza pari ad uno, oppure si può rimuovere tale ipotesi restrittiva e basare il modello su simulazioni ricorsive o sui dati storici (Simulazione Montecarlo e Simulazione Storica) utilizzati per l’attività di forecasting.
L’approccio parametrico risulta molto più semplice da calcolare rispetto alle simulazioni in quanto i dati sono disponibili sulla banca dati di RiskMetricsTM, ma la principale limitazione risiede nel fatto che l’assunzione di rendimenti di mercato distribuiti in modo normale ed indipendente spesso non è realistica e pertanto nel calcolo del VaR si ha una maggiore probabilità che si verifichino eventi estremi, con perdite superiori a quelle stimate. Secondo uno studio di McKinsey nessuna delle grandi banche utilizza l’approccio parametrico per la stima del VaR, mentre l’85% fa ricorso alla simulazione storica.
Un limite comune alla maggior parte dei modelli utilizzati per il calcolo del VaR è legato al fatto che si stima soltanto la massima perdita probabile per un determinato intervallo di confidenza, tralasciando così eventuali eventi estremi che invece sono quelli più rilevanti dal punto di vista delle perdite che essi possono causare. Per tale motivo si ha il rischio di considerare uguali, cioè caratterizzati dallo stesso VaR, portafogli che presentano un comportamento nelle code estremamente diverso. Per evitare di sottostimare le perdite eccedenti il VaR stesso, negli ultimi anni è stato elaborato il Conditional Value at Risk che mostra quanto effettivamente ci aspettiamo di perdere in caso di evento negativo, cioè una perdita condizionata, appunto, dal fatto che ci troviamo nella coda della distribuzione a sinistra del percentile scelto.
In conclusione il Value at Risk è stato sicuramente uno strumento innovativo che ha rivoluzionato e modificato il modo in cui le banche gestiscono i diversi tipi di rischio, semplificando la gestione dei buffer necessari a far fronte ai requisiti imposti dagli Accordi di Basilea. Tuttavia si deve riconoscere come il VaR dovrebbe essere sempre integrato e supportato da altre metodologie, in modo da superare i limiti intrinseci del modello stesso; per tali ragioni l’adozione del Conditional Value at Risk rappresenta un primo passo in questa direzione.
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