In collaborazione con: Carlotta Vicerè
Il problema fondamentale che la scienza economica si pone riguarda la necessità di risolvere l’incompatibilità tra l’illimitatezza dei bisogni dell’uomo e la limitatezza delle risorse disponibili sul nostro pianeta.
Negli anni il progresso ha portato inevitabilmente a sfruttare una quantità sempre più elevata di risorse naturali, fino ad arrivare alla situazione odierna, in cui queste non risultano più sufficienti. La domanda è sempre in crescita ma l’offerta non sempre va di pari passo a quest’ultima; diventa quindi necessario ricercare nuove strategie per il reperimento delle risorse.
Ad esempio, possiamo vedere come questo fenomeno si stia pian piano sviluppando dal punto di vista della ricerca dell’oro. L’attenzione ultimamente si è infatti spostata sul determinare la fattibilità riguardo l’uso di miniere sottomarine.
Tutto è iniziato nel 1977, quando alcuni ricercatori americani, effettuando degli studi sulle sorgenti termali sottomarine, si resero conto che sarebbero potute essere un valido strumento in grado di fronteggiare il problema della limitatezza delle risorse; dopo poco concretizzarono le loro ricerche scoprendo le prime fonti di questo tipo nell’arcipelago delle Galapagos. Intorno ad esse avviene la sedimentazione dei minerali: infatti l’acqua uscente dalla sorgente termale è a una temperatura di circa 600° ed entrando in contatto con l’acqua marina, che alla profondità di uno o due chilometri si trova ad una temperatura intorno allo zero, subisce uno shock termico che provoca la cristallizzazione dei minerali, i quali si depositano sul fondo.
In questo modo non si sedimenta solo l’oro ma anche molti altri elementi presenti sui fondali marini, come argento, rame, piombo, zinco, cobalto, nichel, manganese e altre sostanze rare come ittrio e lantanidi (materiali molto utilizzati nell’industria dell’hi-tech).
La potenzialità di questi depositi si basa sul fatto che le concentrazioni di minerali cristallizzati sul fondale marino sono molto più alte rispetto a quelle in una miniera sulla terraferma.
Nel caso dell’oro, la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) stima che, nel complesso, i fondali potrebbero offrire un valore complessivo di circa 150 mila miliardi di dollari (basandosi sul prezzo attuale).
Sfruttare queste “miniere sottomarine” sembrerebbe dunque la soluzione ideale per il reperimento di nuove risorse minerarie, in particolare l’oro.
Questa idea è però soggetta a pesanti critiche da parte degli ambientalisti, i quali sottolineano il grave impatto che questi scavi potrebbero produrre sul fondale oceanico, con la potenziale distruzione di habitat di molti esseri viventi che risiedono presso i siti di esplorazione ed estrazione, senza dimenticare l’inquinamento dei mari. Infatti si è visto come, contro ogni attesa, a quelle profondità l’ambiente sia ricco di vita e non deserto.
Gli stretti interessati a far partire il progetto affermano che invece siano di gran lunga più ecologici gli scavi sottomarini rispetto a quelli sulla terraferma; secondo il loro parere, il fondale si ricostituirebbe come nuovo in poco tempo.
Essendo un ambiente poco studiato per le complicate condizioni che lo caratterizzano, una risposta certa ancora non c’è. Ciò che si è osservato ad oggi è che una conseguenza degli scavi sottomarini esiste, come confermato dallo studio portato avanti dall’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale.
Un’equipe di ricercatori dell’istituto, ritornando sul luogo di estrazione mineraria, sul fondale marino al largo delle Galapagos, ha verificato come, a distanza di 26 anni, i danni fossero ancora ben visibili in quanto la mancanza di luce, energia e ossigeno a quelle profondità rende molto lungo e complesso il processo di ripristino della flora e della fauna naturale.
Nonostante ciò, la multinazionale canadese Nautilus Minerals Inc. ha ottenuto dal governo della Papua Nuova Guinea una licenza ventennale per lo sfruttamento di un tratto di mare di circa trenta chilometri al largo delle coste, ad una profondità di circa 1.500 metri. Ovviamente la licenza è stata concessa con un ritorno economico per lo stato della Papua Nuova Guinea che è pari al 30% dell’intero progetto.
Certo è che le condizioni a diversi chilometri di profondità sotto il livello del mare non sono semplici da affrontare, risultando largamente più complesse di quelle sulla terraferma. I macchinari impiegati devono essere in grado di sopportare una pressione tra cento e duecento volte quella in superficie.
La Nautilus dovrebbe impiegare tre enormi macchinari telecomandati dalla nave di appoggio che svolgeranno la funzione di rimuovere i minerali solidificati sul fondo e pomparli verso un sistema di filtraggio molto vicino alla superficie. Una volta separati i minerali da acqua e altri materiali come rocce e sabbia, questi ultimi vengono immessi di nuovo in mare sempre per mezzo di un sistema di pompaggio (ciò per evitare che le acque di superficie siano contaminate dalle particelle residue dei minerali in sospensione). La multinazionale sarà in grado di affrontare l’operazione grazie ad ingenti finanziamenti: si parla anche di miliardi di dollari. L’obiettivo iniziale è un prelevamento di 130.000 tonnellate di sedimenti, altamente ricchi di minerali, nel Mare di Bismarck.
In parallelo è cominciata una vera e propria nuova corsa all’oro con l’accordo dell’ISA (Autorità Internazionale per i fondali marini delle Nazioni Unite) che, nel 2013, ha dato il via libera alle licenze per scavi nei fondali oceanici concesse a imprese private; tra queste la più importante è senza dubbio, appunto, la Nautilus Minerals Inc.
Di recente l’interesse è stato mosso anche verso il mar Tirreno meridionale, che stando a recenti studi è forse l’unica zona per ora rilevante nel Mediterraneo per quanto riguarda l’estrazione di minerali.