Sorpresa! Mentre nei bar della Penisola proseguono ancora gli strascichi dell’arduo dibattito tra grandi esegeti dei mercati finanziari su quanto l’azione di Mattarella possa aver influito sugli operatori, i titoli di Stato greci a breve scadenza hanno iniziato a segnare rendimenti inferiori dei BOT italiani, prendendo in esame un arco temporale di nove mesi.
In teoria, per i prossimi nove mesi, la Repubblica italiana è percepita dal mercato come soggetto più a rischio persino della rinomata bancarottiera del Mediterraneo, seppur di poco: 0,75% rispetto allo 0,79% dei BOT, confrontando gli scambi tra giovedì 7 e venerdì 8. Ciò che allarma non è di certo qualche sporadico sorpasso nei rendimenti a breve – i titoli ellenici continuano ad offrire certamente rendimenti più alti considerando un più vasto orizzonte temporale – bensì un rapido incremento che pare ormai inarrestabile su tutti i fronti, dallo spread dei titoli decennali ai CDS a 5 anni, proprio dal 15 maggio, il giorno successivo alla diffusione delle prime indiscrezioni sulla bozza di contratto per il governo del cambiamento.
Ma è proprio così? L’Italia è davvero messa peggio della Grecia, che ha un rating ancora prossimo al livello spazzatura?
Innanzitutto, sommando una serie di fatti quali l’instabilità politica nazionale e comunitaria, la perenne instabilità della finanza pubblica e i dazi minacciati da Trump, ecco che si apre uno scenario a dir poco incerto e le conseguenze non tardano ad arrivare: riduzione dei volumi, fuga dei capitali verso altre mete, deprezzamento dei titoli, incremento dei rendimenti e la possibilità di continuare a speculare in un’ottica di peggioramento del quadro complessivo. Ma, secondo un vecchio detto, nel toccare un coltello in caduta libera, c’è il rischio di farsi parecchio male. Eppure, chi continua ad andar male è proprio il Ftse Mib, che chiude negativamente anche questa settimana e che, nel giro di un mese, ha perso circa tremila punti. Non dobbiamo però dimenticare che i primi acquirenti del mercato italiano (tanto azionario, quanto obbligazionario) siano, guarda caso, gli italiani e che, proprio nel mercato dei titoli di Stato, la BCE è protagonista indiscussa.
Tuttavia, senza invocare necessariamente l’Amor di Patria e smorzando i toni di un titolo leggermente provocatorio, possiamo affermare con certezza che l’Italia è più solida della Grecia. Lo è per un’economia con un PIL di 1.700 miliardi che, pur rimanendo alquanto dormiente, continua a poggiare sulle solide fondamenta di una grande manifattura che esporta per un valore di oltre 400 miliardi di euro, senza poi dimenticarci dei risparmi degli italiani e della loro scarsa propensione ad indebitarsi. Lo stesso vale per lo stato delle finanze pubbliche (con un avanzo primario superiore al 2%), rimaste ancora in piedi dopo 4 anni trascorsi tra sgravi contributivi senza vincoli e bonus privi di solidi criteri economici, nonostante una poderosa spending review da 25 miliardi. Ma quale è stato il risultato finale? Una crescita media annua che non arriva al mezzo punto percentuale tra il 2013 e il 2017 e un debito pubblico che si attesta al 131% del PIL. Eppure, a giudicare dai discorsi di questa attuale classe politica, continua l’instancabile fede nel moltiplicatore della spesa pubblica italiana e nei suoi miracoli, nella credenza che il deficit non sia poi un grande problema, che tanto, mal che vada, il debito pubblico si possa ristrutturare senza grossi patemi dalla sera alla mattina. Forse sono queste le questioni su cui bisognerebbe concentrare maggiormente la nostra attenzione, nonché preoccupazione, più che la continua ed estenuante analisi giornaliera degli scambi.
Ora, prima che il denaro inizi a costare davvero troppo per l’Italia, sarebbe necessaria maggiore chiarezza su cosa il governo gialloverde intenda fare per il futuro: cioè se sia arrivato il momento di dare una sforbiciata alla lista dei ricchi premi e cotillon presente nel contratto di governo oppure se siano effettivamente individuabili le risorse per l’attuazione del programma. Al Ministro delle Finanze spetterebbe il compito di iniziare a delineare il futuro della finanza pubblica italiana, comunicando se il governo intenda sforare il tetto del 3% del rapporto deficit/PIL (per chi ci crede ancora) e fin dove.
Come si è potuto vedere in questo fine settimana, iniziano a mancare all’appello gli investitori – sell in may and go away – e, prima o poi, anche la BCE, la quale inizierà ad alzare i tassi e a dismettere questo massiccio programma di acquisti.